lunedì 26 marzo 2012

L'Anarca e la Via del Bosco

Ernst Jünger: L'Anarca e la Via del bosco
di Andrea Scarabelli
(in Antarès, N. 2/2012)

“Le catastrofi portano alla ribalta figure che si dimostrano capaci di tenere loro testa” (1): la comprensione di questo meccanismo, all’interno del quale è ravvisabile una concezione in cui la crisi cela in sé il suo stesso superamento – a patto che si abbiano occhi per vederlo – è essenziale, in momenti come quello in cui ci ritroviamo, nei quali problemi inauditi si annunciano e, al contempo, si rivelano insufficienti le vecchie ricette. D’altra parte, è fondamentale si tratti di figure che mantengano un’autarchia assoluta rispetto alle fascinazioni del presente. E ciò, nella persuasione che, com’ebbe a scrivere l’intellettuale di cui ci occupiamo in questo scritto, “opposizione è collaborazione” (2). A volte, anche se non ce ne rendiamo conto, l’opporsi al sistema vigente rende a quest’ultimo un servigio notevole. Talune manifestazioni non fanno che rafforzare quel potere di cui si vorrebbe bandire la ragion d’essere. Due massime, queste, che potrebbero guidare una contestazione integrale ed efficace.
Su Ernst Jünger è stato scritto molto, forse anche troppo. La sua biografia ha attraversato tutto il XX secolo: nato nel 1895, si è spento due anni prima della fine del millennio. Arruolatosi, quattordicenne, nella legione straniera, ha partecipato a entrambi i conflitti mondiali. È stato, tra le altre cose, diarista, scrittore, entomologo, artista e filosofo – tra i suoi dialoghi più famosi, ricordiamo quelli con Carl Schmitt e Martin Heidegger (3). La sua ampia opera spazia dalla filosofia alla metafisica della storia, dalla diaristica di guerra alla sociologia, dalla distopia ai saggi sugli stupefacenti, dalla geologia alla fisica. Sebbene essa disponga di svariati accessi, tutti conducono ad un unico sentiero, che si perde al di là del tempo e della storia. Uno di questi prende le mosse dalle figure paradigmatiche del Waldgänger – colui che passa al bosco – e dell'Anarca, che iniziano a farsi strada nell'opera dello scrittore a partire dagli anni Cinquanta. In esse può intravedersi un tentativo di elaborare una concezione del singolo che vada al di là del nichilismo e dei suoi domini. Il più sinistro di tutti gli ospiti, come lo definì Nietzsche, ha ormai preso possesso delle categorie dell'uomo moderno – è possibile mettersi al riparo da esso, senza sfuggirgli tramite il ricorso a fughe, tanto artificiali quanto vane? Forse l'opera intera di Jünger sorge a partire da questo interrogativo, da questa scommessa che l'uomo moderno stipula con il proprio tempo. Nella sua carriera letteraria ed esistenziale, Jünger si servì di numerose elaborazioni letterarie e filosofiche per dimostrare la possibilità, per usare un'immagine tanto cara ad Evola, di tenersi in piedi, in mezzo ad un mondo di rovine spirituali, senza schivarne le insidie. Trarre da esso un insegnamento, esponendosi alla domanda fondamentale che il nulla pone: chi sei tu? Questo il tratto che accomuna, secondo noi, i personaggi di carta, sangue e storia creati da Jünger: il Krieger, il guerriero (che si forma spiritualmente nei conflitti moderni nei quali è la tecnica ad avere la meglio su qualsiasi ordinamento umano) il Dichter, il poeta (che, in tempi di crisi, attinge alle fonti non contaminate dell'essere) l'Arbeiter, il lavoratore (che utilizza le forze scatenate dalla tecnica per la propria formazione attraversando, come una salamandra, il fuoco senza venirne danneggiato ma potenziandosi). Ognuna di queste figure è una risposta alla domanda del Nulla, è un invito a cercare il proprio Io in regioni che siano all'altezza del mondo in cui ci troviamo a vivere. Il nulla chiede all'uomo di identificarsi. La risposta che il singolo fornirà a questa domanda sarà il criterio per discriminarne il rango. Il Waldgänger e l'Anarca sono due possibili risposte. É quanto si tratta ora di illustrare.
La figura del Waldgänger emerge nell'opera jüngeriana dopo la Seconda Guerra Mondiale, a partire dal fallimento di tutta una serie di modelli storici – molto più antichi, è bene ricordarlo, dei primi decenni del XX secolo. In un panorama di questo tipo, a seguito del crollo delle grandi ideologie, sorge un uomo abbandonato alle proprie forze individuali. Rimesso a se stesso, dopo il naufragio delle parole d'ordine, il singolo si trova solo, immerso nella eco del loro crollo. Si entra nell'epoca delle decisioni capitali – il fulcro è ora in mano all'uomo, nella sua singolarità e peculiarità. Salvezza e libertà dipenderanno, in misura sempre maggiore, dalla sua risolutezza (4): non potendo trovare la sua libertà altrove dovrà tentare di rifondarla in se stesso. “Ha il singolo forza sufficiente per affrontare un'impresa del genere?” (5): questa la questione fondamentale a partire dalla quale emerge l'immagine di un uomo che, riconosciuto il fondo nichilistico della Modernità, tenta di esperire questa ultima in maniera più autentica, passando al bosco.
Passare al bosco: ciò denota la figura di cui cerchiamo di delineare il sorgere. L'uomo che si dà alla macchia è il Ribelle, colui che non riesce a rinunciare alla propria libertà, che la reputa superiore persino alla propria esistenza terrena. Affinché questo transito possa avere successo, egli deve confrontarsi con la sua essenza metatemporale: “l'uomo del progresso, del movimento e delle manifestazioni storiche deve fare i conti con la propria essenza immodificabile, sovratemporale, che s'incarna e si trasforma nel corso della storia” (6). Solo a partire da questo confronto può sorgere una ribellione che voglia dirsi autentica ed effettiva. Scelta preliminare di siffatto orientamento sarà l'estirpare l'umanità dalla mera concezione materialistica di quest'ultima che domina negli ultimi tre secoli. La libertà che reclama il Waldgänger non è una indefinita assenza di limitazione ma la necessita che l'uomo non si esaurisca nelle proprie spoglie mortali. Il Ribelle è pienamente consapevole che la riduzione dell'uomo ad ente biopsichico è la chiave di volta di ogni tirannide. Per condurre la sua lotta contro il dominio dei Leviatani, egli è ben conscio della limitatezza degli strumenti offerti da un presente votatosi interamente al materialismo storico. Egli non necessita di nuove bandiere per ammainarne altre ma di un nucleo pulsante che cada al di là del tempo e spazio – il suo manualetto, i suoi breviari, sono intrisi di sapienza mitica. É dal mito, la cui essenza si ripete nella storia come le albe e i tramonti, che la sua resistenza prende le mosse: egli “è molto determinato a difendersi non soltanto usando tecniche e idee del suo tempo, ma anche mantenendo vivo il contatto con quei poteri che, superiori alle forze temporali, non si esauriscono mai in puro movimento” (7). Il fronte sul quale combatte è essenzialmente spirituale. La sua è una avanguardia metafisica; nei tiranni, egli non vede uomini o scettri ma titani.
Molti hanno interpretato la via del bosco alla stregua di una fuga dal presente, quasi come un mito incapacitante elaborato da chi ha rinunciato ad operare nella e sulla propria contemporaneità. Nulla di più falso. Non si tratta di una diserzione dalla realtà o di un rifugio romantico. Il passaggio al bosco non implica una fuga dalla società, verso un indefinito stato di natura; questo movimento, al contrario, è eversivo; esso si fonda sulla possibilità di intervenire sul proprio tempo, operandone una correzione dall'interno: “Il bosco è dappertutto: in zone disabitate e nelle città, dove il Ribelle vive nascosto oppure si maschera dietro il paravento di una professione […]. Il bosco è in patria e in ogni luogo dove il Ribelle possa praticare la resistenza” (8). Questa la persuasione del Waldgänger – il suo motto è hic et nunc. La sua dipartita, pertanto, è temporanea – egli “si ritrae nelle zone impervie e nell'anonimato per riapparire non appena il nemico dia segni di cedimento” (9). Il bosco è in ogni dove, parimenti in quelle metropoli nelle quali l'elemento mitico viene mandato in esilio. Alla sua riscoperta, occorrono occhi atti ad intravederne la presenza, anche laddove questa ultima venga negata con veemenza. Anche la modernità è un bosco, all'interno del quale egli può trovare rifugio. Essa si rivela essere tale solo ad un occhio educato a riconoscerla.
Ciò che Jünger vuole dirci è che vana è ogni rivolta, inutile ogni sommossa, fallace ogni rivoluzione, che non venga preceduta da un mutamento interiore. Ebbene, affinché questa illuminazione possa avere luogo, occorre che il singolo si concepisca come alcunché di superiore alla propria dimensione storica e materiale. Strumento ausiliario di tale risveglio è il mito: esso “non è storia remota; è realtà senza tempo che si ripete nella storia. É un buon segno che il nostro secolo ritrovi un senso nei miti. Come un tempo, oggi l'uomo è trascinato da forze imperiose al largo dei mari, nei lontani deserti e al loro mondo di maschere. Questo viaggio perde il suo aspetto minaccioso non appena l'uomo riacquista consapevolezza del proprio divino potere” (10). Ciò vale anche per gli ordinamenti. Dove questi non conducano l'uomo a confrontarsi con la propria essenza primordiale, essi sono destinati a crollare. Come il nostro ebbe a scrivere nel suo trattato di filosofia e metafisica della storia: “a dimostrarlo sta, fra l'altro, il fallimento cui persino grandi piani vanno incontro allorché il loro modello non trae legittimazione profetica dagli ambiti di questa storia primordiale, di questa idea del genere umano” (11).
Contestualmente a questa presa di posizione, aggiunge Jünger, il nostro presente offre numerosi vantaggi – a patto, ovviamente, che si adotti, nei confronti di esso, un'adeguata disposizione. La stabilità del singolo e la sua essenza metatemporale e metafisica vacillano, nell'epoca del nichilismo, nella quale il Niente viene assunto quale criterio discriminante. Se è questo rischio a caratterizzare il nostro presente in quanto tale, resta pur vero che codesta scossa metafisica può venire intesa come una prova, affinché il singolo possa operare un superamento ascendente della propria condizione. Chi accetta la sfida offerta dal Nulla diviene Waldgänger. Comprendiamo cosi che “il nulla vuole accertarsi che l'uomo sia in grado di reggere la prova” (12); se alla sua interrogazione egli riuscirà a rispondere adeguatamente, la sua forza diverrà abissale. Si spalancheranno, allora, orizzonti inauditi. Proprio in ciò si risolve la libertà alla quale anela il singolo, la cui lotta è contro il tempo, contro la materia: la posta in gioco è molto alta. Il terreno sul quale si combatte è il suo petto, come scrisse nel suo celebre dibattito con Martin Heidegger in merito alla questione del nichilismo: “chi non ha sperimentato su di sé l'enorme potenza del niente e non ne ha subito la tentazione conosce ben poco la nostra epoca. Il nostro petto: qui sta, come un tempo nella Tebaide, il centro di ogni deserto e rovina. Qui sta la caverna verso cui spingono i demoni. Qui ognuno, di qualunque condizione o rango, conduce da solo e in prima persona la sua lotta, e con la sua vittoria il mondo cambia. Se egli ha la meglio, il niente si ritirerà in se stesso, abbandonando sulla riva i tesori che le sue onde avevano sommerso. Essi compenseranno i sacrifici” (13). Da vicolo cieco, l'evo del nichilismo diviene un'opportunità di rafforzamento individuale; affinché quest'ultimo possa verificarsi, non occorre fuggire da esso ma immergervisi, ponendosi in ascolto della sua terribile domanda che, interrogando l'uomo, ne saggia la consistenza metafisica – interrogazione che lo scuote in ogni sua fibra. Questo il realismo eroico che caratterizza il guerriero, il lavoratore ed il Waldgänger – autentica costante della produzione jüngeriana, che si traduce qui nel tentativo di costituire una élite metafisica, “un movimento spirituale che si scelga il nichilismo come proprio terreno e su di esso si modelli riflettendone l'essenza” (14).
Il cammino del Waldgänger non si arresta al Trattato del Ribelle. È ora il momento di indagarne le successive propaggini (15). Entriamo così nei domini dell'Anarca. Si fa strada, nella produzione jüngeriana, una nuova esigenza: che accade quando la via del bosco si fa impercorribile, per taluni individui? Come si devono comportare coloro che, per un motivo o per un altro, non intendono prendere distanza dalla Modernità pur non condividendone gli assunti fondamentali (16)? A partire da queste necessità, verso la fine degli anni Settanta, nel romanzo Eumeswil, Jünger mette in scena un nuovo attore. Questi è l'Anarca, il quale combatte il sistema nel quale vive in maniera autenticamente eversiva. Laddove il Leviatano si avvia verso il declino, egli fa del suo meglio per accelerarne la putrefazione. Dove il sistema si approssima al collasso, questa figura ne olia accuratamente i meccanismi affinché questo trapasso abbia luogo il prima possibile. E ciò, come nel caso del Ribelle, nella massima disillusione. Se il Waldgänger bandisce se stesso da ogni ordinamento, l'Anarca è colui che ha già espulso ogni forma di associazionismo socio-politico dal proprio petto. Egli ha finalmente trovato rifugio nel bosco – ha compreso, cioè, che esso è situato nella propria interiorità, nella regione più profonda del suo essere, inaccessibile alle forme collettive di organizzazione legalizzata dell'oppressione. Secondo le felici osservazioni di Caterina Resta, si fa strada, ancora una volta, la voce del singolo, provato dalle persecuzioni spirituali e dalla continua interrogazione in merito alla propria natura: “allora ancor più urgente risuonerà la domanda – grido nel deserto del nichilismo e di una tecnica divenuta ubiqua – circa il luogo del potere e il soggetto che è chiamato ad esercitarlo” (17). Il continuo domandare, evidentemente, è un pungolo, affinché la sovranità del singolo si riveli in tutto il suo splendore. Sarà egli in grado di divenire quel soggetto capace di mettere le redini ai Leviatani?
Il suo rapporto con le organizzazioni politiche e partitiche è di assoluto distacco. Non prendendo posizione, si garantisce quella distanza che permette il giudizio e, all'occorrenza, il contrattacco: egli “dispone di un posto di osservazione neutro. Lo storico in lui vede entrare nell'arena uomini e potenze con l'occhio dell'arbitro” (18). Ed è proprio il ricorso alla morfologia storica a permettere all'Anarca di transitare attraverso i regimi di soldati e demagoghi che si avvicendano sul teatro politico della Modernità, mantenendo una personale integrità. Giacche le sue radici affondano oltre il presente immediato, l'Anarca mantiene una neutralità interiore, senza patteggiare con questo o quello schieramento politico contingenti: egli “passa attraverso la loro sequela come attraverso una fuga di saloni” (19). Maestro di un disincanto antinichilistico di ascendenza metafisica, questi fonda la propria indifferenza rispetto a strilloni e demagoghi sulla lucida assunzione che “i manifesti cambiano, ma il muro a cui vengono attaccati rimane” (20). Solo la conoscenza della parete a cui essi sono affissi permette di essere scettici sul loro colore e sull'indirizzo che essi promuovono. Ebbene, la superficie che li ospita si trova, in ultima istanza, al di là della storia, alle fonti primigenie dell'essere.
Da queste fonti traggono forza tanto la via del bosco del Waldgänger quanto la resistenza interiore dell'Anarca. Ogni altra ribellione è destinata al fallimento – questa la lezione jüngeriana, di un'attualita tanto sorprendente quanto sconcertante. Da qui, la stretta parentela che lega Anarca e Waldgänger; il primo è allievo del secondo, essendo colui che, a tutti gli effetti, si muove nelle metropoli come se si trovasse in un bosco: “il ricorso alla foresta conferma l'autonomia dell'Anarca, che, in fondo, è sempre e ovunque un uomo della foresta, sia alla macchia che nella metropoli, sia nella società che fuori di essa” (21). Siffatte figure non si escludono a vicenda – esse riflettono, invece, la medesima necessità, che si traduce in due tipi umani differenti, prodotti di analoghe esigenze declinate in realtà contingenti diverse. Entrambe rispondono ad un unico imperativo: dotare il singolo di un'attrezzatura metafisica in grado di sopravvivere alla modernità, secondo la felice espressione di Gianfranco de Turris (22). Innanzi alle ultime convulsioni di un sistema in procinto di dichiarare la propria bancarotta spirituale, le due figure jüngeriane istituiscono un nucleo metafisico interiore all'interno del quale sia possibile mantenere una neutralità ma anche, come si diceva, all'occorrenza, organizzare un contrattacco.
Gli stessi potenti sono consapevoli di questa possibilità. Non è di certo un caso che gli uomini più fidati del Condor, il despota illuminato di Eumeswil, abbiano avuto esperienza della via del bosco. Ciò vale anzitutto per il suo medico, il quale “ha vissuto a lungo nelle grandi foreste, al di là del deserto. Deve avervi fatto incontri singolari. É il medico personale del Condor, ma non soltanto del suo corpo” (23). La foresta, situata oltre il deserto – che, accostato al nichilismo, cresce inarrestabilmente, come ci ricorda Nietzsche (24) – custodisce una sapienza che la Modernità ha esiliato: l'uomo e il suo mondo non si riducono al puro movimento ma dispongono di un centro propulsore situato oltre la storia e la materia. Il mito è il compendio di questa dottrina: “l'anarchico nella sua forma pura è colui che riesce a risalire con la memoria a estreme lontananze: a tempi preistorici, anteriori anche al mito. Egli crede che in quel tempo l'uomo abbia realizzato la sua determinazione autentica. Egli vede questa possibilità anche per l'esistenza attuale dell'uomo, e ne trae le sue conseguenze. In tal senso, l'anarchico è il conservatore originario” (25). La presenza di elementi immutabili che presiedono al movimento conduce l'Anarca a utilizzare gli stessi strumenti promossi dalla crisi per svilupparsi spiritualmente. Gli Dèi sono anche qui – questo il motto dell'Anarca. Esso carica l'hic et nunc del Waldgänger di presenze archetipiche atemporali, dalle quali egli trae la linfa vitale della propria (r)esistenza: fulcro fondamentale della sua condotta eversiva è la domanda su come “l'essere umano, affidato soltanto a se stesso, possa resistere allo strapotere sia dello Stato che della società, o degli elementi, servendosi delle loro regole di gioco, senza esser costretto a sottomettersi” (26). Condizione necessaria di ciò è il mantenimento, secondo la lezione stoica, di una signoria interiore che permetta di mantenere una certa stabilità anche in periodi di decadenza. Solo attraverso essa egli potrà, come d'altra parte fece il Waldgänger, servirsi della Modernità per trascenderla, rimanendone illeso. Il veleno, allora, diverrà farmaco. La sua apolìtia, lungi dall'essere un atteggiamento passivo, è il trasferimento di una guerra esterna al proprio interno: “l'autodisciplina è l'unica forma di dominio che gli si attagli” (27).
L'Anarca sublima la lotta esteriore in resistenza spirituale. Il suo indugiare tra i diversi sistemi politico-spirituali che oggi si contendono il globo non ha nulla a che vedere con l'ignavia delle masse. Queste le parole in proposito di Manuel Venator, l'Anarca di Eumeswil: “In quanto anarca, io sono deciso a non lasciarmi catturare da nulla, e non prendere in fondo nulla sul serio --- non in modo nichilistico, ma piuttosto come una sentinella confinaria, che in terra di nessuno aguzza occhi e orecchie in mezzo alle maree” (28). Ciò pare ricalcare, d'altra parte, la celebre immagine onirica che Jünger scelse per descrivere la propria curvatura biografica e spirituale: “Se chiudo gli occhi vedo talvolta un paesaggio oscuro con pietre, rocce e montagne all'orlo dell'infinito. Nello sfondo, sulla sponda d'un mare nero, riconosco me stesso, una figurina minuscola che pare disegnata col gesso. Questo è il mio posto d'avanguardia, sull'estremo limite del nulla: sull'orlo di quell'abisso combatto la mia battaglia” (29). Il narratore e la sua creazione letteraria si confondono. La sentinella in questione temporeggia, sul proscenio del teatro della storia, per attendere il ritorno di quelle potenze mitiche che abitano ogni tempo, sebbene nel presente risultino perlopiù celate. La condotta dell'Anarca sarà pertanto poco appariscente. Egli cercherà di farsi notare il meno possibile, muovendosi di soppiatto accanto alle spire dei Leviatani e alle tirannie da panem et circenses: “lo stato sarà, in linea generale, soddisfatto di lui: egli si farà notare pochissimo” (30). Rimanendo in agguato nei domini del potere totalitario, attenderà il proprio kairos, il momento per agire eversivamente e far definitivamente crollare un potere che già vacilla pericolosamente. Per mischiarsi e confondersi tra le pletore della Modernità, potrà persino partecipare, mantenendo tuttavia un perenne distacco, di modo da poter abbandonare la nave in caso di naufragio. Potrà associarsi, portando tuttavia avanti unicamente la propria causa, senza legarsi eccessivamente a quegli ambiti di cui si è dichiarato acerrimo nemico: “l'Anarca esplica le proprie guerre anche quando marcia allineato nei ranghi con gli altri” (31). Tali sono i tratti fondamentali dell'Anarca, Waldgänger esiliatosi volontariamente nella tana del lupo; come ben sostiene Giulio Maria Chiodi, “rappresenta anch'esso una presa di distanza dal mondo gestito dai Titani o dalle loro propaggini, ma non vive alla macchia, isolato nel bosco, bensì pacificamente inserito nel mondo […], dove vive inosservato e si fa disponibile al corso degli eventi solo esteriormente. È un adattato non partecipe o un disadattato che si adegua […]. Jünger vi vede l'uomo naturale, che coltiva se stesso senza sottomettersi a nulla e a nessuno e senza desiderio di sottomettere gli altri, noncurante di quel che operano i continuatori dei Titani” (32).
Con questi personaggi, Jünger fornisce il proprio supporto a quegli uomini che, costretti a permanere all'interno della Modernità, non vogliono che la loro funzione spirituale si esaurisca nel consenso plenario, nella critica ad oltranza o in una totale ignavia. Il suo stoicismo può ben adattarsi ai tempi che corrono, nei quali veniamo costantemente convocati ai tribunali dell'opinione pubblica per discutere delle nostre inclinazioni ed aspirazioni. Alle opposizioni che caratterizzano il nostro tempo – le quali, spesso e volentieri, non fanno che manifestare le medesime parole d'ordine semplicemente tradotte in linguaggi diversi – il nostro risponde con l'indicazione di una terza via: quella del Waldgänger, che attinge dal bosco le risorse per condurre una strenua resistenza spirituale, e dell'Anarca, eversore del sistema, sentinella silenziosa che attende che quest'ultimo abbia esaurito le proprie possibilità per dargli il colpo definitivo e farlo trapassare. Indicazioni assai preziose, che permettono di acquisire, nei confronti della Modernità, un atteggiamento critico e disincantato. L'ascolto dei moniti jüngeriani permetterebbe, in un'epoca nella quale la critica del proprio presente tende ad esaurirsi in una lunga collezione di luoghi comuni, di dotare la propria contestazione ai sistemi vigenti di una portata cosmica, spirituale, metafisica. Solo dove la critica della Modernità disponga di strumenti estrinseci ad essa può dirsi effettiva, efficace ed integrale. Subordinare la storia al mito, la realtà alla metarealtà, la politica alla metapolitica, la modernità alla tradizione – queste le basi di un antimodernismo che voglia dirsi propositivo.

(1) E. Jünger, Trattato del ribelle, traduzione di F. Bovoli, Adelphi, Milano 1990, p. 35.
(2) E. Jünger, Eumeswil, traduzione di M. T. Mandalari, Guanda, Parma 2001, p. 220.
(3) Cfr., in merito, E. Jünger, M. Heidegger, Oltre la linea, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1989; E. Jünger, C. Schmitt, Il nodo di Gordio. Dialogo su Oriente e Occidente nella storia del mondo, a cura di G. Galli, Il Mulino, Bologna 1987.
(4) Nei suoi diari del 1943, può leggersi, in proposito: “L'uomo dovrebbe perdere sempre più di valore, dovrebbe divenire metafisicamente sempre più indifferente, per essere possibile il trapasso dalla distruzione delle masse, che noi oggi stiamo vivendo, a quella totale. È da premettersi che l'uomo dovrebbe mutarsi prima completamente in un lurido insetto. […] Anche questo rapporto […] è previsto nella Sacra Scrittura […] nella distruzione di Sodoma: Dio lo esprime dicendo che, fino a quando nella città vive un solo giusto, la vuole risparmiare. Questo è anche un simbolo della immane responsabilità del singolo in questo tempo. Uno solo può essere mallevadore per innumerevoli milioni”. E. Jünger, Irradiazioni. Diario 1941-1945, a cura di H. Furst, Guanda, Parma 1993, p. 347.
(5) Trattato del ribelle, cit., p. 26.
(6) Ivi, pp. 95-96.
(7) Ivi, p. 55.
(8) Ivi, p. 106.
(9) Ibidem.
(10) Ivi, p. 54. Cfr. anche p. 60: “L'elemento mitico […] è sempre presente, e al momento opportuno affiora alla superficie come i tesori […]. Non si ritorna indietro verso il mito, il mito lo si incontra di nuovo quando il tempo vacilla sin dalle fondamenta, sotto l'incubo di un pericolo estremo”.
(11) E. Jünger, Al muro del tempo, trad. di A. La Rocca e A. Grieco, Adelphi, Milano 2000, p. 103.
(12) Trattato del ribelle, cit., p. 84.
(13) E. Jünger, M. Heidegger, cit., p. 104.
(14) Trattato del ribelle, cit., p. 92.
(15) In merito a questo transito, cfr. L. Bonesio, C. Resta, Passaggi al bosco. Ernst Jünger nell'era dei titani, Mimesis, Milano 2000; A. de Benoist, L'operaio fra gli dei e i titani. Ernst Jünger sismografo nell'era della tecnica, in Trasgressioni, n. 18, 1994, p. 54.
(16) In merito a simili considerazioni Julius Evola – un esauriente confronto del quale con Ernst Jünger attende ancora di essere composto – scrisse, tra gli anni Cinquanta e Sessanta, Gli uomini e le rovine (Roma 1953) e Cavalcare la tigre (Milano 1961). Le idee contenute in detti studi ricalcano appieno le vedute del Waldgänger e dell'Anarca.
(17) C. Resta, Mondializzazione e tecnica nell'epoca del nichilismo, in Ernst Jünger e il pensiero del nichilismo, a cura di L. Bonesio, Herrenhaus, Milano 2002, p. 101.
(18) Eumeswil, cit., p. 183.
(19) Ivi, p. 119. Corsivo nostro.
(20) Ivi, pp. 116-117. Il fondo comune di ordinamenti apparentemente contrastanti fu oggetto d'indagine dell'intera produzione jüngeriana. Già negli anni Trenta, ne la Mobilitazione totale, il nostro ebbe a dichiarare che le differenti bandiere sono come vessilli atti ad attirare la selvaggina verso le bocche da fuoco. Sebbene rette da parole d'ordine apparentemente contrapposte, “fanno venire in mente i teli colorati con cui, durante la battuta di caccia, si istrada la selvaggina verso il campo di tiro dei fucili”. E. Jünger, La mobilitazione totale, trad. di G. Galli, ne Il Mulino, a. XXXIV, n. 5, settembre-ottobre 1985, p. 760. Consapevolezza che si declinò, successivamente, nell'analisi dei tratti accomunanti i due blocchi mondiali, durante la Guerra Fredda: “si è portati a supporre che il colore bianco o rosso della stella dipenda solo dal suo vacillare, come quello dell'astro che compare al di sopra dell'orizzonte. L'unità appare evidente allo zenith.” E. Jünger, Lo Stato Mondiale, Organismo e Organizzazione, trad. di A. Iadicco, prefazione di Q. Principe, Guanda, Parma 1998, p. 31.
(21) Eumeswil, cit., p. 140.
(22) Cfr. G. de Turris, Come sopravvivere alla modernità. Evola Jünger Mishima, Terziaria, Milano 2000.
(23) Eumeswil, cit., p. 193.
(24) “Il deserto cresce: guai a chi cela deserti dentro di sè”. Cfr. F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, a cura di M. Montinari, Adelphi, Milano 1976, p. 356.
(25) Lo Stato Mondiale, cit., pp. 73-74.
(26) Eumeswil, cit., p. 233.
(27) Ivi, p. 181.
(28) Ivi, pp. 81-82.
(29) Irradiazioni, cit., p. 104.
(30) Eumeswil, cit., p. 140.
(31) Ivi, p. 130.
(32) G. M. Chiodi, Forza elementare e forma in Ernst Jünger, in Ernst Jünger e il pensiero del nichilismo, cit., p. 55.

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