lunedì 5 agosto 2013

Lisbona 2012

Lisbona 2012. Pessoa o del re interiore dell'europa
di Andrea Scarabelli

(in Aa. Vv., Per quale motivo Israele può avere 400 testate atomiche e l'Iran nessuna? L'impero interiore, Edizioni La Carmelina, Ferrara 2013)
http://www.edizionilacarmelina.it/?page_id=613


LISBONA, NOVEMBRE 2012. Ultimo atto: in capo all'Occidente – oltre ultra – il Portogallo attende ancora il suo re perduto, disperso in guerra contro i mori e mai più ritrovato, almeno nelle sue spoglie mortali. Quella di Ksar El Kebir fu una missione suicida, a tutti gli effetti. Poche divisioni di europei innanzi a schiere sterminate di musulmani. Ma Dom Sebastiao seppe che ciò era necessario. Il suo sacrificio avrebbe fecondato la terra. L'esercito decimato, il corpo del Re mai rinvenuto. Perito? Nessuno volle crederlo. Dipartito nelle Isole Fortunate – declinazione lusitana di Avallon Unterberg Gudenberg Kiffhäuser – tuttora se ne attende il ritorno.
Lisbona, novembre. “Guai a te Lusitania, che dominerai su tutte le nazioni, poiché verrà il tempo in cui la tua luce si spegnerà; ti troverai sotto i piedi degli altri, che ti romperanno, come se fossi un vaso di coccio, e porteranno via le tue ricchezze e i tuoi tesori; allora sarai tributaria, gemerai, e di tutti coloro che ti amavano nessuno ti consolerà. Il tuo onore sarà diventato diverso, la tua gente distrutta, le tue città conquistate dagli infedeli”, scriveva Pessoa, profeticamente. La antica potenza imperiale – l'odierna colonia finanziaria. Ecco gli infedeli di cui sopra. Finis terrae. “In principio era la parola e la parola veniva tradita” (E. P.). Leggendo la filigrana del passato s'intravvede la miseria del presente. È la nostra disgrazia – ma forse anche il principio della salvezza.
Lisbona, oggetto di queste pagine, assurge a simbolo dell'Europa intera, in bilico tra il ricordo di un re scomparso e la speranza in uno che si attarda a risorgere, dal cuore della montagna o nell'isola nella quale giace, assopito, sognando il suo Impero. Il suo sogno è l'Europa, destino millenario ceduto a grigi burocrati tecnocrati plutocrati. Il Re dorme ancora.
Ma valle a spiegare queste cose ai banchieri, alle Fraulein e ai professori, ai detentori dell'Euro, unica madrelingua di un Occidente che ha abdicato al compito di darsi una forma, di assegnarsi un compito, di regalarsi un'identità. Valle a spiegare a codesti signori – trova, se ti riesce, qualcuno disposto a processarli; quale corte potrebbe giudicarli, quale tribunale inchiodarli ai loro misfatti (E. P.)?
Certo, la posta in gioco è abissale: si tratta di rinunciare alla possibilità di stabilire una linea di continuità tra un glorioso passato, un presente incerto e un futuro quanto mai incombente, indovinabile solo tramite diagrammi ed istogrammi, vaticini dell'oggi. Il Portogallo. L'Europa.
Entrambi attendono il Re. E c'è ancora chi, in mattinate di nebbia, memore dell'antica profezia, si azzarda: “Ora torna D. Sebastiao”. Ma il sovrano si fa desiderare. E invano ci si attarda a cercarne i lineamenti nel demagogo di turno, quand'anche nel professionista sportivo o televisivo. Translatio imperii modernissima.
Eppure, lo stesso Pessoa chiarì, in modo non passibile di fraintendimento alcuno, i termini di questo auspicio. Il Portogallo – ma qui potremmo estendere il discorso all'Europa intera – ha sempre atteso il ritorno fisico del sovrano. Mancando questa figura, è avvolto da una cappa di passatismo incapacitante – saudade crepuscolare che paralizza l'azione. Coltiviamo il sogno del re nei nostri cuori ed esso risorgerà, calcherà nuovamente la scena della storia continentale. Sarà un nuovo inizio, di certo – ma tutto il resto dovrà prima colare a picco. Questa la Via della Mano Sinistra pessoana: “Iniziamo a inebriarci di questo sogno, ad integrarlo in noi, a incarnarlo. Fatto questo, ciascuno di noi in indipendenza e da solo a solo con sé, il sogno si propagherà senza sforzo in tutto quello che diremo e scriveremo, e l'atmosfera sarà creata (…). Allora si formerà nella Nazione il fenomeno imprevedibile da cui nasceranno le Nuove Scoperte, la creazione del Mondo Nuovo, il Quinto Impero. Sarà ritornato il Re Don Sebastiano”.
Forse occorre ripensare la venuta del desejado, dell'encoberto, del sovrano, da intendersi in modo affatto diverso da quanto accaduto sinora? Forse che l'oro a cui anelare non sia quello volgare (così detto dalla sapienza ermetica) con il quale oggi si ricattano i popoli, ipotecandone il futuro, ma quello celeste – solare – da realizzarsi sub specie interioritatis? E invece no: noialtri si attende il Re dalle Isole Fortunate. E la deriva continua.
Il nascondimento del Re – questo il messaggio di cui l'attuale dramma lusitano può farsi latore – non è altro che un modo d'essere nostro. La sovranità di cui sopra non deve palesarsi fisicamente ma fare capolino come disposizione essenziale ad accoglierla e ridestarla al nostro interno, appunto. Abdicando al compito di assegnarci un destino, abbiamo cacciato il Re presso Avallon, le Isole beate, chiamiamolo come ci pare. Questi luoghi non sono fisici ma prima di tutto esistenziali. Non si giunge ad Avallon tramite navi o aeroplani ma attraverso una metanoia. Questo il bivio che attende l'Europa.
Insomma, vi è ritorno e ritorno. L'uno esterno, per così dire, materiale, e l'altro interiore, spirituale. Il primo dà come risultato la nostalgia per un paradiso che nasce già in quanto perduto, il secondo si configura invece come esperienza immortalante, come destino.
Ebbene, il Re di cui parla Pessoa è del tutto interiore – non che si risolva nel subconscio, beninteso, come certuni vangeli moderni pretendono di assumere – e ha da essere raffigurato come un compito, un anelito, uno stato da conseguirsi. E la sovranità è il destino dell'Europa. Nazionalismo mistico: così Pessoa definì questa Grundstimmung, variazione modernissima di una disposizione assai antica.
Il re esige una metanoia, prima di comparire, o chi lo riconoscerà? La venuta del sovrano è dapprima interiore: è sufficiente ridestare il monarca in sé per poi – alchemicamente – proiettarlo fuori di sé. Questa l'unica via moderna alla sovranità, del tutto europea. Un'ascesi solare, regale, che veda nel monarca fisico un simbolo – e nulla di più – di un iter da realizzarsi a livello individuale, qualsiasi altra possibilità essendo relegata alla maledizione della saudade, per l'appunto. Al pari del nichilismo europeo, naturale esito di un dio cercato fuori di sé e eteroconseguito, e non sorpreso nella propria interiorità.
Una soluzione moderna ad un problema insolubile, laddove nella modernità ci si radichi. È una risposta tradizionale alla crisi. Non si guarisce dalla malattia utilizzando i suoi stessi strumenti – persino la Via della Mano Sinistra richiedendo, in effetti, un orientamento superiore. Monito dirimente, al fine di superare l'impasse del capitale che la modernità esibisce quale suo tratto preponderante: quando la partita è organizzata e diretta da bari, occorre essere risoluti e rovesciare la scacchiera, come scrisse Jünger – solo così il Re interiore dell'Europa risorgerà.
Lisbona. Alla stazione del Rossio, una raffigurazione di Lima de Freitas mostra Fernando Pessoa, tra le mani una copia de La via del serpente, incoronato di gloria. Due serpi si rincorrono per tutta l'estensione del dipinto, srotolandosi da Christian Rosenkreutz alle stelle. Pessoa va a costituire l'asse di un caduceo ermetico, di quel caduceo che è il Portogallo – ma forse l'Europa intera, che ha da riconoscersi come realtà assiale, verticale, prima che aggregato socio-economico (secondo una tale ottica, la presente crisi potrebbe essere addirittura un'occasione, non avendo intaccato che l'Europa “orizzontale” e forse favorendo persino il ricordo di un'altra Europa).
Incoronandosi e scegliendosi come destino, insomma. Il re sarebbe tornato, in un giorno di nebbia, dicevano i vaticini, restaurando l'antico splendore portoghese e instaurando il Quinto Impero, somma e sintesi dei precedenti quattro, elencati dalla profezia di Daniele. Ecco la variazione pessoana sul tema, che chiude Messaggio, canto del Portogallo ma dell'Occidente intero:

Tutto è disperso, niente è intero.
Portogallo, oggi sei nebbia.
È l'Ora!
                                                         Valete, Fratres.

È l'ora. Che il Re venga disvelato, che i frammenti di un sogno – lungo svariati secoli – possano costituire una compagine organica, atta a farci transitare oltre il declino, oltre la catabasi dell'ortodossia economica, oltre la storia, oltre l'Occidente.
L'Europa è (ancora) una missione.
Pessoa ne è il cantore.

Andrea Scarabelli

Recensione di "Antarès" firmata da Luigi Iannone

Su «Antarès» i giovani si scoprono antimoderni

Quando sulla scena editoriale fa il suo ingresso una nuova iniziativa, viene aprioristicamente salutata con favore e investita di un senso per il solo fatto di essere in circolazione. Occorre però riconoscere che la pubblicazione della rivista Antarès. Prospettive antimoderne che fa, appunto, della critica alla modernità il proprio oggetto di studio, appare insolita e potrebbe sin da subito suscitare un più che naturale scetticismo. Eppure è una ventata di aria fresca e di anticonformismo laddove appare evidente la sua alterità rispetto al panorama generale.

Innanzitutto perché i redattori non sono canuti reazionari o nostalgici depressi - come sarebbe logico aspettarsi - ma giovani universitari di Milano partiti con l'autofinanziamento e ora, grazie all'editrice Bietti (e sotto la sapiente guida di Gianfranco de Turris), capaci di pubblicare a cadenza trimestrale un'ottima rivista; in secondo luogo perché corroborati da una nutrita schiera di collaboratori da tutta Italia; infine perché non si tratta di un arcaico richiamo a un antimodernismo di maniera. Sono infatti presenti articoli dedicati ai classici come Jünger, Mishima, Pound, Tolkien, Pessoa, Benjamin, Huizinga, Kafka, Eliot, Huxley, Borges, Anders, ma sempre inseriti in un contesto in cui viene superata la pars destruens delle loro opere. E su questi due aspetti, antiaccademismo e antimodernismo, i quali non possono essere tenuti rigorosamente disgiunti, si configurano le nuove prospettive culturali su cui si muove Antarès.

Allora, se è vero, come ribadito dal direttore editoriale Andrea Scarabelli, che l'intenzione è approfondire tematiche che il paludoso e asfittico panorama universitario pare ignorare, d'altra parte c'è la necessità di conferire al proprio tempo una dimensione simbolica e spirituale. Quindi si lascia da parte l'ossequio acritico nei confronti della modernità tecnologica e si va oltre, alla ricerca di una «nuova metafisica e di un progresso più umano». E questo lo si può fare con il ricorso al mito inteso come qualcosa di più di una semplice metafora ma soprattutto con un pensiero in cammino che «malvolentieri accetta la prigionia museale, analitica o da catalogo». Non a caso in uno dei primi numeri si affronta la pratica del camminare da un punto di vista filosofico in cui risuonano paradossalmente echi futuristici («il movimento in luogo della quiete, il sentiero di montagna in luogo della pianura che tutto livella») e che si segnala come paradigma di una visione antimoderna ma non passatista.

Cinquant'anni di Cavalcare la tigre

Julius Evola Cinquant'anni di Cavalcare la Tigre
Julius Evola Cinquant'anni di Cavalcare la Tigre
1961-2011
di Giandomenico Casalino, Gennaro Malgieri, Andrea Scarabelli, Marcello Veneziani
a cura di Gianfranco de Turris
Pubblicato nel 1961, ma scritto dieci anni prima, Cavalcare la tigre è uno dei più famosi e diffusi libri di Julius Evola.
Un libro frainteso da chi credeva di leggervi un appello alla diserzione dalla militanza politica ma anche da quanti ritennero necessarie scorciatoie velleitarie-rivoluzionarie. Era semplicemente l’opera ispiratrice di una autentica e duratura rivolta contro il mondo moderno.
Cavalcare la tigre, dunque, si porta dietro la fama di «libro proibito». Sicché per i cinquant’anni della sua prima edizione lo hanno esaminato da diversi punti di vista Giandomenico Casalino, Gennaro Malgieri, Andrea Scarabelli e Marcello Veneziani, mettendone in risalto le diverse valenze e il suo impatto su tre generazioni, la sua attualità dopo mezzo secolo.
Fu scritto in una Italia alle prese con l’eredità del dopoguerra e ostaggio della polizia del pensiero catto-comunista. Erano ancora da venire gli anni della riscoperta degli intellettuali della Crisi, da Carl Schmitt a Julius Evola, da Oswald Spengler a Ernst Jünger a Gottfried Benn. In quel tempo l’intellighenzia di sinistra inneggiava all’invasione dell’Ungheria da parte dei carri armati sovietici.
Cavalcare la tigre era anticipatore della crisi di coscienza del tempo ed evocatore di una Cultura che confliggeva con il conformismo dominante. Julius Evola era un maestro della tradizione che imponeva disciplina, cultura e capacità meta-storica.
La tigre corre ancora senza freni. L’«epoca della dissoluzione» non si è conclusa. La lezione di Julius Evola indica una scelta di vita ancora valida. Ma la tigre non si lascia cavalcare da tutti…

GIANDOMENICO CASALINO è studioso del mondo classico greco-romano, nelle sue dimensioni giuridico-religiose e filosofico-politiche. Ha pubblicato vari libri, tra gli ultimi: L’Origine (2009), Lo specchio del mondo (2010), La Conoscenza Suprema (2012).
GENNARO MALGIERI è autore di studi su Costamagna, Evola, Schmitt, Rocco. Analista politico, ha pubblicato: Su Schmitt (1988), Ideario italiano. Il pensiero del Novecento (2001) Alfredo Rocco e le idee del suo tempo (2004). Ha diretto i quotidiani Secolo d’Italia e L’Indipendente. Ha fondato e diretto la rivista Percorsi.
MARCELLO VENEZIANI filosofo, giornalista, si è occupato di Evola sin dalla tesi di laurea dedicata al suo pensiero filosofico (1979) e poi ripubblicata col titolo Evola tra filosofia e tradizione (1984). Tra le sue opere, La rivoluzione conservatrice in Italia (1994), Di padre in figlio Elogio della Tradizione (2001) e Dio, patria e famiglia (2012).
ANDREA SCARABELLI collabora con la cattedra di Storia della Filosofia dell’Università degli Studi di Milano, con la Scuola Romana di Filosofia Politica e la Fondazione Julius Evola. Direttore della rivista Antarès.

Editore: Controcorrente.
Numero di pagine: 80.
ISBN: 9788898000012.

Recensione di Stefano Giuliano, "J. R. R. Tolkien", Edizioni Bietti, Milano 2013

Fortunato il paese che ha bisogno di eroi e (soprattutto) che ha Tolkien

di Roberto Alfatti Appetiti
(Il Secolo d'Italia, 5 giugno 2013)


In principio fu Franco Cardini. Sua, l’intuizione. Giusto trent’anni fa, mentre la critica strabuzzava gli occhi  – tra lo stupore e il fastidio – davanti all’accoglienza entusiastica del pubblico per Il Signore degli anelli, lo studioso fiorentino azzardò l’analisi più acuta: il viaggio della Compagnia dell’Anello, come gruppo e in termini di singoli, altro non è che un viaggio nell’Oltretomba, nell’Aldilà, e in quanto tale un iter iniziatico, a conclusione del quale tutti raggiungono un mutamento di status, un cambiamento interiore, attraverso una serie di prove materiali e spitituali da superare. Più di qualcuno saltò sulla sedia. L’ambito in cui i critici avevano già pensato di circoscrivere l’opera tolkieniana era quello inoffensivo del racconto d’avventure, per quanto riuscito potesse dimostrarsi. Un confine che non giustificherebbe, però, i cento milioni di copie vendute in ogni angolo del mondo, le ristampe a cadenza annuale, la consacrazione cinematografica, le nuove generazioni di fans. Non soltanto l’opera tolkieniana ha resistito alle mode, ma ne ha generata una delle più fortunate: l’heroic fantasy, con tanto di case editrici specializzate, riviste, giochi da tavolo e relative app. Un successo inarrestabile che conferma, piuttosto, come le opere dello scrittore inglese abbiano saputo dare una risposta a bisogni universali. «Tolkien offre a una società scettica e demitizzata, sotto forma di una grande saga fantastica ed eroica, quasi un’epopea, un mito positivo, fondante, completo e verosimile in cui credere, anche se ci si rende conto che è la favola più lunga del mondo». Così Gianfranco de Turris introduce “J. R. R. Tradizione e modernità nel Signore degli anelli”, il prezioso e aggiornato volume di Stefano Giuliano (Bietti, pp. 345, € 22) appena tornato in libreria che, nella sterminata produzione di libri sull’opera tolkieniana, va a colmare un vuoto siderale. E lo fa proprio raccogliendo e approfondendo lo spunto offerto a suo tempo da Franco Cardini. «In Italia scarseggiano studi che analizzano specificatamente il retroterra culturale tolkieniano in funzione della simbologia mitologica, ossia quali siano i fondamenti di certi suoi personaggi, luoghi ed episodi – scrive ancora de Turris – e Stefano Giuliano analizza le influenze e le suggestioni che stanno al fondo di tale narrativa mettendo il Signore degli anelli a confronto con la storia delle religioni, l’antropologia culturale, la mitologia indoeuropea, l’epica medioevale, i romanzi arturiani, le chansons de geste e le saghe norrene, ricostruendo il senso simbolico di personaggi e azioni». Nell’attuale società “liquida”, con la perdita di “consenso” di fedi e credenze, nell’era del precariato globale, la fantasia mito-poietica di Tolkien, con la sua portata esemplare, le valenze morali collegate alle vicende dei protagonisti e le foreste di simboli attraversate dal lettore, hanno avuto successo non tanto e non solo perché narrano storie avventurose ma perché, in un’epoca segnata dal disincanto, hanno restituito significato al mito, dato nuovo vigore a idee e valori antichi, offerto un antidoto al materialismo e al cinismo odierno. «Il Signore degli anelli si fonda sul dispositivo narrativo della discesa agli inferi e sul simbolismo di morte e rinascita come racconto fondante del cammino dei protagonisti», sottolinea Giuliano, classe 1964, talmente a proprio agio tra immaginario religioso, agiografia medievale e letteratura cavalleresca da ricostruire passo passo le fonti letterarie, folkloristiche e mitiche dell’opera tolkieniana. Nella ricerca, nata come tesi di laurea e pubblicata per la prima volta nel 2001 da Ripostes di Salerno col titolo “Le radici profonde non gelano”, Giuliano si sofferma su ogni “indizio” utile: il nome di un personaggio o di un luogo, le citazioni, i riferimenti celati tra le righe e, non ultimi, gli “stratagemmi” letterari con cui il professore coniugava sapientemente quanto efficaciamente mito e realtà. Ecco che il percorso iniziatico di Frodo, il portatore dell’Anello, verso Mordor, può essere letto anche come la migliore metafora possibile della condizione dell’uomo di oggi in un mondo che sembra affacciarsi sull’orlo del baratro. Una missione così difficile, la sua, da risultare quasi “insostenibile”. Eppure Tolkien (non a caso) la affida a un mezzouomo, un hobbit, la figura più “fragile” nel ricco parterre di eroi classici, elfi e guerrieri valorosi a sua disposizione. Con buona pace di Bertolt Brecht, è fortunato il paese che ha bisogno di eroi. Meglio ancora: il paese che coltiva una sana cultura dell’eroismo. Tolkien ambiva a restituire all’Inghilterra quelle storie di dèi e degli eroi dell’epoca pre-cristiana (sul genere dell’Edda norrena, del Kalevala finnico e del Nibelungenlied tedesco) che la conquista normanna e la prima rivoluzione industriale avevano finito per disperdere. Ma, nello stesso tempo, non trascurava il mondo che aveva intorno. Mordor, oltre a essere una rappresentazione dell’inferno, lascia intravedere un’inquietante “somiglianza” con la realtà moderna: «inquinamento atmosferico e idrogeologico, impoverimento del territorio, rovina del paesaggio, accumulo di scorie e residui, mentre Sauron pare offrirsi come rappresentazione del potere assoluto e tirannico». Meglio di chiunque altro, era stato Elémire Zolla a “inquadrare” Tolkien, sin dalla prima introduzione all’edizione del 1970: «Autore o amatore di fiabe è colui che non si fa servo delle cose presenti». Tolkien, uno di noi.

http://www.ilgiornale.it/news/interni/cultura-destra-viva-e-vegeta-nonostante-pdl-908312.html

Cultura a destra? Viva e vegeta nonostante il Pdl

Il Popolo della libertà vuole ripartire dalle idee. Giustissimo: le ha trascurate troppo a lungo...


Sul Giornale, nei giorni scorsi, esponenti di spicco del Popolo della libertà quali Fabrizio Cicchitto e Mariastella Gelmini hanno avviato una discussione interessante: il centrodestra, per ripartire, avrebbe bisogno di una iniezione di cultura. È un auspicio tanto giusto quanto sorprendente perché il partito non ha dato l'impressione, nell'azione politica degli ultimi anni, di fare tesoro delle energie sprigionate da aree culturali non riconducibili alla sinistra. Senza troppi giri di parole: la cultura di destra, dal 1994 a oggi, ha offerto tanto ma i politici di destra, con le dovute eccezioni, non parevano sempre interessati. Nella gestione della Rai, dei ministeri chiave in campo culturale, delle istituzioni cittadine, s'è visto assai poco ispirato alla «cultura di destra». Spesso le buone intenzioni di partenza sono rimaste lettera morta, in questa sede non conta dire perché. Anche gli intellettuali sbarcati a Roma, dal compianto Piero Melograni a Marcello Pera, non sembrano nel complesso aver ricoperto un ruolo decisivo.
Liberali, cattolici, post-missini: fuori dal Parlamento c'è una enorme concentrazione di forze con proposte forti ma chi le sta a sentire? Sono senza interlocutori politici al punto che c'è gente (di destra) che sostiene che tutto sommato, quando c'è qualche progetto concreto in ballo, sia meglio cercarsi interlocutori istituzionali di sinistra. Almeno c'è qualcuno con cui parlare anche se poi ti dirà di «no». Dall'altra parte, la nostra, invece ti attende il nulla.
Il Pdl avrebbe un bacino inesauribile di idee a cui attingere, se lo volesse. Salvo rare eccezioni, nessuna delle persone che qui saranno nominate è etichettabile come «di partito»; qualcuna non si definisce neppure di centrodestra; tutte attribuiscono un valore fondamentale alla propria autonomia. Non vogliamo certo arruolare nessuno. Vogliamo piuttosto segnalare intellettuali accomunati da un lavoro serio che va in una direzione diversa (se non propria opposta) rispetto alla sinistra. Intellettuali che quindi dovrebbero «interessare» al Popolo della libertà all'improvviso affamato di cultura.
L'Istituto Bruno Leoni è un punto di riferimento imprescindibile per chiunque, sia pure con sfumature diverse, appartenga all'universo liberale e libertario. Produce paper, convegni, corsi di studio, libri e seminari. Dalla cultura, all'economia, passando per l'ambiente e l'urbanistica: non c'è settore che sia scoperto. Nel suo organico ci sono fuoriclasse come Carlo Lottieri, Alberto Mingardi, Carlo Stagnaro, Filippo Cavazzoni, Serena Sileoni. Il «padre spirituale», oltre a Leoni, è Sergio Ricossa.
Dopo decenni di silenzio, ora vi sono due editori coraggiosi che hanno portato i classici del liberalismo austriaco e non solo dalle nostre parti: Liberilibri di Aldo Canovari e Rubbettino di Florindo Rubbettino sono colonne portanti della cultura liberale italiana. A cui di recente si è aggiunta, con titoli inattesi e fortissimi, la Marsilio di Cesare De Michelis. Il «giro» di autori, collaboratori, curatori, prefatori di questi «piccoli» (in realtà grandissimi) editori è di per sé una mappa del pensiero storico-filosofico non dogmatico: Giuseppe Bedeschi, Lorenzo Infantino, Raimondo Cubeddu, Dario Antiseri, Luigi Marco Bassani, Eugenio Di Rienzo, Giovanni Orsina, Fabio Grassi Orsini, Alessandro Orsini... Un po' più a destra, l'editore Bietti propone una delle migliori riviste italiane, Antarès, fucina di talenti coltivati da Gianfranco De Turris, ove si può leggere di letteratura, economia, polemiche culturali fuori dagli schemi.
Le associazioni cattoliche sono sempre state ben organizzate: svolgono un lavoro incredibile sull'istruzione paritaria dal punto di vista legale, divulgativo, economico, culturale offrendo una mole di dati impressionante e proposte concretissime per incentivare la libertà di scelta delle famiglie. Che dire poi di editorialisti e scrittori come Antonio Socci, Camillo Langone, Luca Doninelli, Davide Rondoni, Luca Negri e tutte le altre penne affilate che guardano alla Chiesa come punto di riferimento; del gruppo combattivo che fa capo a Riccardo Cascioli e al rinato quotidiano on line La bussola; del lavoro sempre coerente di editori come Lindau, Cantagalli, San Paolo, Ares?
Quotidiani. Il Foglio di Giuliano Ferrara è nato per offrire un solido retroterra culturale al neonato centrodestra, e ha fatto un lavoro esemplare. Ha fatto conoscere i valori di un partito liberale di massa, ha dialogato col mondo cattolico, ha lanciato talenti in grande numero, ha valorizzato e fatto esplodere geniacci inclassificabili come Pietrangelo Buttafuoco. Del Giornale non tocca a me dire. Però voglio ricordare chi combatte o ha combattuto, di recente e con posizioni variegate, la sua battaglia culturale sulle nostre colonne: Luca Beatrice, Beatrice Buscaroli, Giampietro Berti, Roberto Chiarini, Dino Cofrancesco, Francesco Forte, Giordano Bruno Guerri, Giorgio Israel, Luca Nannipieri, Fiamma Nirenstein, Massimiliano Parente, Francesco Perfetti, Claudio Risé, Vittorio Sgarbi, Stenio Solinas, Marcello Veneziani, Stefano Zecchi.
Internet? Social Network? Il mondo dei blogger «di destra» è da sempre all'avanguardia grazie a pionieri come Andrea Mancia fondatore, fra le altre cose, di Tocqueville.it. Mancia, Bressan, Missiroli e altri hanno saputo aggregare nella rete le forze conservatrici-liberali, prima della sinistra, ricavandone una miniera di sapere sul web.
Questo elenco è parzialissimo, chiedo scusa ai moltissimi che nell'impeto ho certamente dimenticato e ai tanti «cani sciolti» che dell'assoluto individualismo hanno fatto una religione. D'altronde non serve un elenco completo: questo è solo un piccolo esempio di cosa si agita fuori dai palazzi romani. La cultura c'è. Il partito può dire altrettanto?