domenica 21 aprile 2013

Recensione di G. Lonardoni, Vibenna. Una saga etrusca

Gerardo Lonardoni, Vibenna. Una saga etrusca, 
                                        Edizioni Bietti, Milano 2012, pp. 402, euro 20,00.

In un'epoca che si illudeva di procedere a grandi
passi verso un eterno futuro, lui veniva a ridare
vita a un remoto passato che altri credevano
morto e sepolto (Vibenna, p. 377).

Il mito, scriveva Ernst Jünger negli anni Cinquanta, “non è storia remota; è realtà senza tempo che si ripete nella storia”. Aggiungendo, subito dopo: “È un buon segno che il nostro secolo ritrovi un senso nei miti”. Secondo Mircea Eliade, “la storia della «riscoperta» del mito nel XX secolo costituisce un capitolo della storia del pensiero moderno”, intendendo il mito come quel medium che “reintegra l'uomo in un'epoca atemporale che è, di fatto, un illud tempus, cioè un tempo aurorale, «paradisiaco», oltre la storia”. Accanto alla storia progressiva e lineare, sbilanciata verso il futuro, verso la dimensione escatologica dell'utopia, ecco dunque riaffiorare il mito, narrazione delle origini, a testimonianza di un paradigma che non si lascia estirpare dai tempi ma che accompagna la prima, in maniera per così dire carsica. Ciò accade in quanto esso non appartiene ad un passato concluso una volta per tutte ma ad un'origine contemporanea a tutte le epoche, deflagrando nell'hic et nunc per denotarlo come esperienza immortalante. Riconoscere questa compresenza è compito di una filosofia e di una letteratura che vogliano dirsi ad un tempo moderne e tradizionali.
Questi auspici costituiscono, a parere di chi scrive, i presupposti teorici di un romanzo appena dato alle stampe per i tipi della casa editrice milanese Bietti, firmato da Gerardo Lonardoni. Stiamo parlando di Vibenna. Una saga etrusca, che affronta, da un punto di vista narrativo, una delle tappe cruciali dell'aurora della civiltà occidentale, a dimostrazione che quanto scritto da Eliade riguardo al XX secolo può ben dirsi valido anche per il XXI. Nel territorio in cui Lonardoni conduce il lettore il mito si accompagna alla storia, anzi, più precisamente, la storia non acquisisce senso che per il tramite della trasfigurazione mitogenetica. O il divenire è ierofanico oppure non è affatto, insomma. Ce lo dice l'autore stesso, nel Prologo. Il mito è quel tratto che fa da collante tra il mondo materiale e la dimensione metafisica dell'esistenza: mentre i miti del mondo moderno “sono solo favole senza morale, il cui unico scopo è di estraniarci dal mondo reale, quando ne siamo annoiati o spaventati”, al contrario, per i popoli dell'antichità, “erano punti di riferimento essenziali, il fondamento stesso del loro mondo interiore ed esteriore” (p. 12). Questa dimensione esperienziale ed immanente del mythos è l'unica in grado di condurci nei domini etruschi di cui si narra in Vibenna, nei quali ha luogo una vicenda assai singolare.
Il compito dei fratelli Auleos e Caelos Vibenna è condurre MacStarna, mercenario etrusco, a conseguire lo stato di regalità che gli spetta, divenendo il futuro Servo Tullio, Re di Roma. Strappato in tenera età dalla sua condizione di figlio legittimo della Città Divina da un misterioso rapimento, avvenuto con il tacito consenso della regia romana, il cui senso andrà palesandosi nel corso della narrazione, la sua è una Queste che mira a realizzare uno stato superiore – condizione già contenuta embrionalmente nelle premesse ma che va disvelata e realizzata. La vicenda si principia in una taverna, nella quale il guerriero etrusco viene avvicinato dai due fratelli che, apparsi dal nulla, gli parlano di progetti, missioni, destini e via dicendo. Stupefatto, obbedendo ad un fato che non gli si rivelerà che gradualmente, partecipa a battaglie, smaschera intrighi, prendendo parte alle vicende storiche di un'Italia ancora aurorale. La sua ascesa alla funzione regale passerà per una serie di tappe paradigmatiche, all'interno delle quali il mercenario dovrà dimostrare il proprio coraggio ma anche capacità logistiche e tatticostrategiche.
Il suo è un autentico percorso di formazione, che si tinge di tonalità iniziatiche a partire dalla comunione che istituisce con due figure sacerdotali, le quali gli faranno intendere la suprema verità, che lo condurrà da una condizione mercenaria al potere solare romano: il suo iter non è – e non sarà – ascrivibile al mero percorso individuale ma risponde ad un disegno più alto. Certo, si tratta di una vocazione che lascia del tutto interdetto – se non addirittura irritato – il nostro MacStarna, mercenario abituato a fare affidamento sulle proprie forze e incapace di comprendere le ragioni dei Vibenna, orientate non da logica umana ma da augurio divino. Perché l'hanno cercato? Perché, tra tutti, proprio a lui è destinata questa missione? Presto detto, spiegano Auleos e Caelos: è il dio che, parlando per bocca di Cacu, l'oscuro indovino che si accompagna loro, ha fatto il suo nome. Ma, di questo, il protagonista non riesce ancora a capacitarsi. O meglio, non ancora.
MacStarna non accetta sudditanza o schiavitù, ma agisce esclusivamente per sua diretta iniziativa. Ma può vedersi in questo suo daimon una mancanza di libertà? Null'affatto, e saranno le vicende cui prenderà parte ad insegnarglielo: libertà non è l'avocarsi il diritto di corrispondere ai propri istinti più bassi ma accordare il proprio volere, il proprio sentire, il proprio essere, insomma, al volere degli dèi. Libertà e destino non solo non si contraddicono ma sono due figure complementari, il cui fondo comune è inalienabile.
Una congiunzione cruciale, all'interno di Vibenna. Certo, perché se è della libertà di MacStarna che si parla, viceversa il disegno all'interno del quale essa si staglia altro non è che il destino dell'Occidente stesso, il cui sviluppo avviene nel nome della Città Eterna, che, al tempo dei Vibenna,

era soltanto il capoluogo di un piccolo stato di pastori guerrieri e nulla ancora lasciava presagire il suo futuro destino di capitale dell'Occidente (p. 13).

La funzione di MacStarna, in qualità di Servius Tullius, patrocinata dai due Vibenna, sarà di innestare i segni della civiltà etrusca nella nascente civiltà romana, facendosi raccordo vivente tra il crepuscolo di una cultura e la nascita di un'altra. Egli si fa testimone della Tradizione e della sua continuità, garantendo il passaggio dei momenti sacri dell'universo etrusco all'interno di quello romano, tassello vivente della sempiterna sacra filosofia che di Roma e dell'Occidente è la quintessenza. Sarà la stessa madre di MacStarna, Thànaquil, a rivelargli, dopo il ritorno di quest'ultimo a Roma:

Tu sei l'uomo migliore del nostro popolo, l'incarnazione stessa del genio tirrenico. Roma invece è la più forte delle città italiche e avrà un grande avvenire […]. Me l'ha rivelato il dio (p. 236).

A che tuttavia la Città Eterna possa espletare la sua funzione, occorre che essa affronti e superi le numerose sfide che il destino le porrà. Come tutte le società tradizionali, la sua esistenza non è statica ma dinamica, basandosi su una continua lotta tra ciò che è superiore e ciò che è inferiore, come tematizzato da numerosi studiosi e intellettuali, tra cui l'Evola di Rivolta contro il mondo moderno. Ora, questo superamento continuo è possibile ad una sola condizione:

Potrà riuscire in questa sua impresa solo se alla sua forza unirà la saggezza degli Etruschi […]. Roma diventerà una città non più soltanto latina, ma anche etrusca; e quando il nostro popolo declinerà e il Nome Etrusco scomparirà per sempre dal novero delle genti, la sua essenza più profonda continuerà a vivere in Roma (Ibidem).

Inizialmente scettico e, potremmo dire, non senza un certo anacronismo, materialista – il guerriero difatti pare non curarsi degli dèi e dei vaticini degli auguri – gli eventi cui parteciperà gli mostreranno il suo percorso essere voluto da quelle stesse divinità che suggellarono di eternità il nome di Roma.
Ennesimo elemento di grande interesse sono le due figure sacerdotali che lo accompagnano durante la sua formazione, vale a dire Cacu, legato ai fratelli Vibenna, e il druido Dunecan, padre di uno degli eroi dei Celti con il quale il mercenario etrusco si confronta, all'inizio del romanzo. Da dette figure il protagonista verrà edotto sull'importanza della sua azione, non solo da un punto di vista storico ma pure cosmico. Da Dunecan, capirà che vana è ogni libertà che alieni l'uomo dal proprio destino. E ai vagheggiatori di una libertà anarchica intesa come mera assenza di limite, il druido potrebbe rispondere come fece a MacStarna:

Quanti uomini davvero liberi hai conosciuto finora? Servire la volontà del dio non significa essere dei servi. Gli uomini sono succubi delle loro debolezze e vivono tutta la loro vita al servizio di quelle. È meglio obbedire al dio, credimi: è un padrone migliore rispetto alla natura umana! (p. 374).

Ciò che l'etrusco dovrà apprendere a conclusione del suo iter è che questo rapporto con quelle sfere superiori alla storia non implica affatto un obnubilamento della propria individualità. Nell'ottica che fa da sfondo alle vicende di Macstarna e dei Vibenna, gli dèi non sono entità aliene dalle vicende del mondo, a cui certa speculazione cristiana ci ha reso avvezzi, quanto dei simboli di una potenza che ha da essere realizzata a livello anzitutto individuale:

L'uomo comune ha bisogno di dei e di signori, per sapere sempre qual è il suo compito; l'uomo superiore ne fa a meno ed è legge a se stesso (p. 375).

Da qui la sentenza definitiva del druido, che inizia MacStarna alla sua funzione regale, che sembra riprendere la tematica dell'infrazione volontaria del disegno cosmico, non per incorrere nelle punizioni destinate a chi infrange questo equilibrio quanto piuttosto per porsi al di sopra di esso (tematica presente in numerose tradizioni delle più svariate estrazioni):

Chi non obbedisce agli dei, significa che li ha al proprio servizio (Ibidem).

Il libro di Lonardoni, in conclusione, può essere letto da un duplice punto di vista. Come romanzo, nella sua forma narrativa, ben scritto e avvincente, ma anche come documento storico, atto ad illuminare una vicenda adombrata dalla Storia con la “S” maiuscola. Storia, precisa l'Autore, scritta dai vincenti, anche se, scrive per bocca del professore protagonista dell'Antefatto successivo che chiude il volumetto, “i vinti a volte si prendono delle rivincite postume, facendo trapelare in qualche modo la loro visione dei fatti” (p. 378). Un ritorno del rimosso, dunque, secondo il quale il Servo Tullio della tradizione romana viene ora inquadrato a partire dall'iter che lo condurrà dalla sua origine etrusca fino alla Città Eterna.
Laddove si voglia invece analizzarlo da un punto di vista simbolico, poi, la soddisfazione della lettura sarà ulteriore – e questo, a dimostrazione delle straordinarie possibilità offerte da questo tipo di narrativa, che molti vogliono confinare nell'ambito della mera fiction, svago da tempo libero.
Questa triplice possibilità di lettura è, a parere di chi scrive, tratto fondamentale del romanzo. Come MacStarna, anello di una catena che – dall'Etruria a Roma – ancora anima il nostro Occidente, la narrativa entro il cui alveo può collocarsi Vibenna può dirsi una felice sintesi tra temi di certo antichi ma trattati con lo stile moderno del romanzo, rispondendo all'esigenza mitopoietica dei tempi di cui sopra. Calandosi di volta in volta nella storia, con il linguaggio proprio al susseguirsi delle epoche, Lonardoni rianima un mondo, ne rievoca lo spirito dalle sue ultime vestigia. Ed ecco Cacu, Macstarna Auleos e Caelos, insieme a tutti gli altri, tornare dall'oblio e accompagnare il lettore, iniziarlo ai misteri di un'Italia di certo scomparsa ma resa contemporanea a tutte le epoche dal medium mitopoietico della fiction.

Andrea Scarabelli
(PoliticaMente anno VIII n. 78 - febbraio 2013)
http://www.politicamente.net/recensioni.html

Nessun commento:

Posta un commento