Su «Antarès» i giovani si scoprono antimoderni
Quando
sulla scena editoriale fa il suo ingresso una nuova iniziativa, viene
aprioristicamente salutata con favore e investita di un senso per il
solo fatto di essere in circolazione. Occorre però riconoscere che la
pubblicazione della rivista Antarès. Prospettive antimoderne che fa,
appunto, della critica alla modernità il proprio oggetto di studio,
appare insolita e potrebbe sin da subito suscitare un più che naturale
scetticismo. Eppure è una ventata di aria fresca e di anticonformismo
laddove appare evidente la sua alterità rispetto al panorama generale.
Innanzitutto
perché i redattori non sono canuti reazionari o nostalgici depressi -
come sarebbe logico aspettarsi - ma giovani universitari di Milano
partiti con l'autofinanziamento e ora, grazie all'editrice Bietti (e
sotto la sapiente guida di Gianfranco de Turris), capaci di pubblicare a
cadenza trimestrale un'ottima rivista; in secondo luogo perché
corroborati da una nutrita schiera di collaboratori da tutta Italia;
infine perché non si tratta di un arcaico richiamo a un antimodernismo
di maniera. Sono infatti presenti articoli dedicati ai classici come
Jünger, Mishima, Pound, Tolkien, Pessoa, Benjamin, Huizinga, Kafka,
Eliot, Huxley, Borges, Anders, ma sempre inseriti in un contesto in cui
viene superata la pars destruens delle loro opere. E su questi due
aspetti, antiaccademismo e antimodernismo, i quali non possono essere
tenuti rigorosamente disgiunti, si configurano le nuove prospettive
culturali su cui si muove Antarès.
Allora, se è vero, come ribadito
dal direttore editoriale Andrea Scarabelli, che l'intenzione è
approfondire tematiche che il paludoso e asfittico panorama
universitario pare ignorare, d'altra parte c'è la necessità di conferire
al proprio tempo una dimensione simbolica e spirituale. Quindi si
lascia da parte l'ossequio acritico nei confronti della modernità
tecnologica e si va oltre, alla ricerca di una «nuova metafisica e di un
progresso più umano». E questo lo si può fare con il ricorso al mito
inteso come qualcosa di più di una semplice metafora ma soprattutto con
un pensiero in cammino che «malvolentieri accetta la prigionia museale,
analitica o da catalogo». Non a caso in uno dei primi numeri si affronta
la pratica del camminare da un punto di vista filosofico in cui
risuonano paradossalmente echi futuristici («il movimento in luogo della
quiete, il sentiero di montagna in luogo della pianura che tutto
livella») e che si segnala come paradigma di una visione antimoderna ma
non passatista.
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