venerdì 21 ottobre 2011

Il nomos della modernità

La Modernità dispone di un proprio nomos?
Localizzazione, ordinamento ed annientamento
a partire dall'opera di Carl Schmitt ed Ernst Jünger[1]

di Andrea Scarabelli


“Certe vie, come suggerisce la saggezza
europea, sono senza ritorno”[2]

“I massacri democratici appartengono alla
logica del sistema (…). La democrazia celebra
il culto dell'umanità su una piramide di crani”[3]


I. Introduzione metodologica

    Ciò che ci apprestiamo a compiere in questa sede non è mera esposizione, né semplice e superstiziosa ricostruzione storiografica o fedele trasposizione filologica – queste righe sono piuttosto mosse dal tentativo di comprendere la realtà storico-destinale della nostra epoca, marcata dall’espansione civilizzatrice[4] globale dell’Occidente. I metodi appena indicati, tipici di un incedere ingenuamente positivistico, non ci aiutano qui, rivelandosi, come direbbe Spengler, un futile lavoro da formiche. L’agire di certo sistematismo positivo, in quest'ordine di domini, non solo si rivela inutile ma anche fuorviante, nella persuasione che una indagine possa dirsi essenziale solo se condotta ad un livello diverso, trascendente la rappresentazione objettiva, storiografica e materiale del mondo. Compiamo questo gesto a partire dalla tematizzazione della guerra come strumento di puro annientamento ne  Il nomos della terra di Carl Schmitt, il qual testo non riducendosi a semplice oggetto di studio ma a mappa, abecedario, manuale per decifrare i caratteri del nostro tempo – per loro natura, oscuri. Non definizioni ma indicazioni, accenni, segnavia. Non sistemi con-clusi ma spiragli – e ciò, a partire dalla convinzione che, morfologicamente, qualsiasi ambito questionato riveli, in filigrana, le cifre dello Zeitgeist che lo pose in essere.
    Le diagnosi sono sempre inattuali, soprattutto nel mondo moderno, trattandosi di un momento storico di inaudito e sfrenato cambiamento. É anzi questo vorticante mutare a impedire, secondo l'insegnamento nietzschiano, ogni qualsivoglia formulazione. Dove è l'accelerazione – il divenire, inferiore, tellurico e cieco – ad impadronirsi delle forme, senza che queste ultime imprimano su di esso il proprio suggello, la lingua si rivela essere uno strumento decisamente impotente. Ebbene, ciò determina un duplice movimento: da una parte, il nulla di senso, lo scetticismo, il greve sentore che nulla è più determinabile; dall'altra, il convulso proliferare di dottrine e pseudo-dottrine – il cui continuo presentarsi ricorda, forse, quello di una colonia di vermi su un cadavere – le quali pretendono di dire, una volta per tutte, la verità sull'esserci dell'uomo e l'ente nella sua totalità. Inutile sottolineare la co-implicazione e la complementarietà di siffatti movimenti – uno sguardo allenato morfologicamente non potrà che intuirla immediatamente. Essi si richiamano, si fondano reciprocamente. Dove l'uno dovesse essere consegnato all'oblio, anche l'altro perderebbe il suo carico di senso.
    E ora, l’itinerario del cammino vero e proprio. Passando tramite il trinomio ordinamento-localizzazione-guerra, giungeremo al delineare la guerra come puro annientamento – nella sua triplicità costitutiva, ossia come unione di alocalizzazione, mobilitazione della tecnica e criminalizzazione dell'avversario – tentando, in un secondo momento, di orientarci tramite siffatte acquisizioni nella civilizzazione globale del nostro tempo. Forse la selva del presente apparirà sotto un diverso ascendente, al vaglio delle critiche schmittiane. Tutto ciò in una prospettiva  il cui baricentro vada a cadere al di là di implicazioni morali, evitando sia accettazioni acriticamente entusiaste sia nostalgie inattuali. Non ci è dato astrarci dal contesto delle nostre pratiche[5].

II. Nomos della terra , localizzazione e annientamento

    É bene ora gettar luce, preliminarmente sui concetti fondamentali utilizzati da Schmitt nel saggio in questione – in primo luogo, sul significato di nomos. Innanzi alla sua traduzione in legge (Gesetz), peculiare della tradizione ottocentesca, rivelante l’artificialità dell’imposizione piuttosto che la cifra vera e propria di un ordinamento, occorre restituire a tale termine , per quanto ci è possibile, l’originario splendore[6].
    Leggiamo che “nomos, per contro, viene da nemein, una parola che significa tanto dividere quanto pascolare”[7]. Si tratta di una di-visione, un'occlusione della vista, che da pan-optica, totale, caotica, indefinita, diviene localizzata, particolare, cosmica. Dividendo il terreno e prendendosene cura, l’uomo plasma un mondo an-archico in una realtà cosmico-organizzata – transito demiurgico possibile solo tramite una semiosi primigenia, l’occupazione della terra, appunto. Gesto che sancisce la collocazione dell'uomo al centro del suo cosmo. “Il nomos è pertanto la forma immediata nella quale si rende visibile l’ordinamento politico e sociale di un popolo, la prima misurazione e divisione del pascolo, vale a dire l’occupazione di terra e l’ordinamento concreto che in esse è contenuto e da essa deriva”[8]. Si tratta, dunque, suggerisce Schmitt, della coappartenenza originaria di ordinamento e localizzazione. Comprendiamo, dunque, che un ordinamento di qualsiasi tipo non si sviluppa in modo ab-soluto, sciolto cioè da ogni relazione con l’ambiente, ma che, in quanto tale, accade sempre in un certo di tipo di radicamento dell'uomo al proprio territorio natale, al proprio Heimat.
    Il misconoscimento di questa sfera di attribuzione inizia, secondo Schmitt, al tempo di Platone e dei Sofisti – una eco assai significativa è parimenti riscontrabile nella Politica di Aristotele. Presso i Moderni, l'inattualità di una concezione di questo calibro è pienamente riscontrabile nella considerazione artificiale del nomos, ad opera di un modo di pensare legato alle scienze positive, che indagano  il mondo come posto (positum) in quanto conservabile dal sogno scientifico, delirio snaturato avviatosi, non di certo casualmente, nella Grecia del V-VI secolo a. C. Per dirla con Heidegger, dall'essere il custode delle cose del mondo, l'uomo ne diviene il detentore. I nomoi divengono Ge-setzen, imposizioni – tale passaggio di testimone è epocale, fonda una nuova visione del mondo. Lo scienziato, da ora in poi, sarà il novello sacerdote di una realtà ridotta al suo aspetto inferiore, ossia materiale ed irrazionale[9].
    Simile movimento, d'altra parte, nemmeno è alieno da implicazioni giuridiche e politiche. Nomos diviene Gesetz, entrando nella sfera semantica della centralità dello Stato, del suo impianto burocratico asettico e chirurgico, che retroflette volentieri la sua verità all'origine. Pare che queste riflessioni siano in grado di smascherare lo scacco matto della Modernità: per assicurarsi una nobile origine, questa avrebbe esplicitato, nelle sue istituzioni, quanto di già implicito dovette sussistere presso i Greci. Il loro nomos altro non sarebbe stato che l'equivalente metafisico del secolarizzato agire dello Stato. A loro insaputa – giacché non furono di certo essi a tracciare siffatte fantasiose linee di continuità tra due civiltà tanto diverse quanto incomunicabili – gli Antichi furono moderni! Ben singolare conclusione! Non potrebbe, invece, questa attribuzione, essere peculiare dei Moderni – e di essi soltanto? Questa la natura dell'interrogativo posto da Schmitt, nelle pagine da noi indagate.
    Procediamo. Ogni ordinamento giuridico, insomma, dispone di una genesi nel radicarsi in una certa forma di territorialità. Gli esempi, assai convincenti, addotti dal giurista sono molteplici. Ne riporteremo alcuni.
    Il diritto medievale della respublica christiana intese il mondo – ancora sconosciuto nella sua totalità, ciò è fondamentale – come dicotomizzato in terre cristiane e territori da cristianizzare – e ciò, senza riferimento alcuno alla giurisdizione marittima (come vedremo, è proprio il rapporto tra terraferma e mare aperto a identificare, secondo Schmitt, ogni singolo ordinamento[10]).
    Successivamente, l’immagine del globo secondo lo Jus Publicum Europaeum, il cui principio unico e ultimo è lo Stato, designò il globo, conosciuto ora nella sua totalità ma soprattutto in quanto totalità, come tripartito in territori statali europei, domini non europei associati a Stati europei – ossia, propriamente, coloniali – e territori non occupati, vale a dire potenzialmente occupabili.
    É facile immaginare, in questo avvicendarsi, il mutamento che il volto del pianeta dovette subire. Se il medioevo cristiano divise i territori in cristiani e cristianizzabili, la modernità, invece, nata grazie all'ordinamento statale – secondo Schmitt, oscura parodia dell'ecumene medioevale[11] – scandì le terre in base al loro essere Stati europei, territori associati a Stati europei e territori potenzialmente associabili a Stati europei.
    In ogni ordinamento, emerge, in tutta la sua forza, il binomio che lega territorialità e fons iuris: il principio che ogni ciclicità storica elegge a suo criterio discriminante scandisce, di volta in volta, il conferimento di senso ai territori. Attraverso il nomos l'ordinamento destinale di un popolo si fa immanente. Ogni Weltanschauung imprime il proprio sigillo al territorio. Nell'attivo configurarsi di questo ultimo rispetto alla sovranità ordinatrice, si configura l'ordinamento concreto. Ora, la comprensione di questa coappartenenza è essenziale per comprendere il legame tra guerra, ordinamento e territorialità, con la “consapevolezza del fatto che il diritto e la pace poggiano originariamente su delimitazioni in senso spaziale”[12]. É quanto si tratta di discutere adeguatamente.

III. Il diritto e la guerra

    La tensione che si sviluppa tra guerra, dasein e Ortung è, a detta di Schmitt, essenziale: “il problema centrale di ogni ordinamento giuridico non è tanto quello dell’abolizione della guerra, ma piuttosto quello della sua limitazione e regolamentazione”[13]. La questione tocca le fondamenta di ogni aggregazione. La guerra affonda le sue radici nell’essenza abissale dell’uomo: la ritualizzazione in sacrificio dell'omicidio, la pratica della sepoltura, gesti che scandiscono l'ingresso dell'uomo nella società, altro non sono che segnali dell'essenza congenitamente annichilente dell'uomo. Riconoscendosi come colui che può dare la morte, l'uomo diviene sociale[14]. Di conseguenza, ciò di cui si deve far carico ogni ordinamento non è l’eliminazione del conflitto ma la sua legiferazione e regolarizzazione.
    Un ordinamento che intenda essere di natura umana non deve sopprimere il confronto bellico, giacché, come ben sostenne Ernst Jünger in Fuoco e movimento, “la guerra non è una condizione del tutto soggetta a leggi proprie ma un’ altra faccia della vita, (…) come la guerra non esprime una parte della vita ma la vita in tutta la sua violenza, così la vita è a sua volta per intero di natura bellica”[15]. Da qui il suo appartenere a qualsiasi orizzonte antropologico, configurandosi di volta in volta in modo differente: “Questo spettacolo ricorda i vulcani, nei quali viene a eruzione sempre lo stesso magma e che però sono in attività in regioni assai differenti. Così, l'aver preso parte a una guerra risulta qualcosa di simile all'essersi trovati nel raggio di azione di una di queste montagne che vomitano fuoco: ma c'è differenza tra l'Hekla islandese ed il Vesuvio nel golfo di Napoli”[16]. A partire da ciò, la centralità della gestione bellica contestualmente alla storia delle idee: “da questo punto di vista la guerra appare come una salda pietra di paragone che dà esecuzione al suo verdetto secondo leggi rigorose e specifiche, come una scossa sismica che mette alla prova tutti gli edifici nelle loro fondamenta”[17]. Potremmo dire, sulla scorta delle riflessioni di Jünger, che la gestione della guerra è la via maestra per giungere al cuore metastorico e metafisico di ogni civiltà.
    Non si tratta, tornando a Schmitt, di chiudere gli occhi innanzi alla barbarie del conflitto, ma di delimitare il suo esercizio all’interno di topoi geografici – metafisici, potremmo aggiungere noi[18] – sicuri e delimitati. La negazione co-annunciando al contempo l'obliterato in quanto possibilità, chi cerca di interdire istanze naturali ed innate, eliminabili unicamente attraverso l'eliminazione dell'uomo stesso, non fa che tramutare l’effettualità negata in una istanza più forte. La nostra contemporaneità offre decine di esempi di un modus operandi del genere. Ogni organizzazione, dunque, tanto giuridica quanto metafisica, dalla respublica christiana allo Jus Publicum Europaeum, dovette muovere dalla necessità di mantenere un ordine macroscopico in grado di integrare attivamente i conflitti ad esso intestini, senza interdirli in quanto tali.
    Nella respublica christiana il principio che delimita il conflitto, la justa causa belli, è di natura teologico-religiosa e obbedisce al concetto di libertas, intesa quale sinonimo di missione cristiana. In siffatta sfera giuridica, la guerra giusta si rivela essere una missione di cristianizzazione del globo, ordinata dal pontifex – tradizionalmente, il costruttore di ponti ma anche chi agisce come ponte, chi fa di se stesso ponte tra due dimensioni – e, dunque, traente la sua origine da dettami di ordine sovranaturale, metafisico, tradotti in geometria umana, appunto, dal pontefice, il quale abita tra gli uomini e, al contempo, gli Dei[19].
    Successivamente, presso lo Jus Publicum Europaeum, la fonte che dà senso alla guerra è di natura secolarizzata, deteleogicizzata. Dal tramonto del diritto medievale (silete teologi in munere alieno! è l’emblematico invito di Alberico Gentile, rivolto a quei teologi che ancora intendevano legiferare sulla cosa pubblica), sorge una nuova Sfinge. Essa si staglia sulle rovine di un sapere sacrale, eclissando le istituzioni tradizionali; una nuova forma va imponendosi, mutuando dal precedente Ortung attribuzioni e rivendicazioni. Questa nuova forma è lo Stato.
    In ciò, solo la mera superstizione del fatto può pretendere di riscontrare uno scacco. Se, in precedenza, la teologia si traduceva immediatamente in un ordinamento giuridico, la maschera inedita dello spirito del tempo vede la dimensione politica celare una radice eminentemente teologica – e ciò, nonostante l'ateismo intrinseco della Stato novello. Se nel Medioevo non poteva darsi alcun tipo di politica non ricevente crisma da un ordinamento superiore, dopo il trapasso dell'ecumene medioevale la situazione si fa ambigua: da una parte, l'ordinamento statale tenta di svincolarsi convulsamente da certa dogmatica fideistica; dall'altra, questo anelito all'emancipazione rivela la necessità tradizionale di uno sposalizio tra politica e meta-politica; congiunzione verificatasi, per l'ultima volta, proprio nel Medioevo[20]. Infranto questo sigillo, calca il palcoscenico una nuova maschera della Weltgeschichte: lo Stato moderno, profano, secolarizzato e quantitativo, dominio delle masse e della borghesia mercantilistica. La riforma protestante donerà ad esso una nuova veste teologica, proscenio del capitalismo imperversante, ultima religione possibile[21].
    Esso si rivela il nuovo punto di riferimento nelle faccende belliche: giusta è la guerra che accade fra gli stati europei, intesi alla stregua di persone, avversari (justi hostes) in carne ed ossa, dotati dei medesimi diritti e di eguale dignità (aequalitas hostium). La dimensione legale della guerra viene ascritta al suolo continentale. Durante il conflitto il nemico non è identificato in quanto meramente annientabile ma come un giusto avversario dotato di una sua dignità. L’aggredito è giuridicamente equivalente all’aggressore. Di conseguenza, peculiare di questa fase è tanto la distinzione tra nemico e criminale, quest'ultimo non appartenendo a giurisdizione alcuna ed essendo il nemico dell'Ordinamento con la O maiuscola – dicotomia che verrà a cadere, come vedremo, nell’evo della guerra come puro annientamento – quanto il diritto alla neutralità e la possibilità di un trattato di pace postbellico.
    A partire da tali esemplificazioni, risulta evidente, in tutta la sua forza, il legame intercorrente fra diritto, localizzazione e guerra. Il fine di ogni ordinamento – il katechon, ovvero l'impedimento l’avvento dell’Antecristo e la fine del mondo, nel caso della respublica christiana e il mantenimento dell’ordinamento interstatale ad opera dello Jus Publicum Europaeum – è strettamente collegato alla limitazione della guerra. Proprio questa legiferazione è il trait d’union tra la sacrale-teologica justa causa belli e il concetto secolarizzato di justus hostis. Di volta in volta, dunque, vengono definiti i canoni di una “guerra sensata”, al fine di impedire l’avvento di una guerra che si riduca ad un puro e semplice annientamento. É il nomos a mantenere attiva, in senso vero e proprio, la differenza tra battaglia e macello, tra prigionia e campi di sterminio. La sua comparsa nella Weltanschauung moderna annuncia ovunque sciagure.

IV. La dimensione metafisica della guerra come puro annientamento

    Nel XX secolo, scrive Schmitt, viene meno questa de-limitazione della guerra e sorge, di conseguenza, un nuovo tipo di bellum, che fa tabula rasa tanto della vecchia autorità pontificia, neutralizzata dall’ateismo del nuovo umanesimo, quanto dell’ordinamento statale intraeuropeo, messo in questione dalla novella Weltanschauung del globo nella sua totalità – e, ovviamente, concepito come tale. Dopo la definitiva emancipazione delle colonie d'oltreoceano, la geografia spirituale consolidata accusa un attacco inaudito. Ora il vecchio continente deve fare i conti con nuove potenze che crescono a dismisura, noncuranti della secolare autorità europea. Ovunque, nel Vecchio Mondo, si sviluppa una spiccata sensibilità per la fine delle culture e le teoriecicliche della storia[22]. La comparsa di nuovi rivali sconvolge l'unicità europea – essa fa sorgere un relativismo geografico e metageografico che verrà tradotto dai cosiddetti letterati della crisi come uno stimolo a trarre dei bilanci dalla consapevolezza di un tramonto sempre più inesorabile.
    Il mondo ora è inteso come interezza – lo Jus Publicum Europaeum, nella sua dimensione continentale, non può che divenire legislazione regionale. Nuovi giganti dai piedi d'argilla esigono un riconoscimento planetario. L'Europa perde il suo secolare primato mondiale divenendo un accessorio periferico del meccanismo intercontinentale in via di realizzazione. Ciò accade congiuntamente all’oblio dell'antico nomos della terra. Lo spazio della guerra muta e con esso la guerra stessa. Essa si estende alle retrovie nonché agli spazi di aggregazione urbana. Da confronto tra pari, diviene missione di annientamento – in seno ad essa, tutto è concesso, senza esclusione di colpi. Le zone belliche, sotto l'ascendente dell'organizzazione tecnica, divengono macelli. Tali azioni non mirano a conseguire nuovi assetti politici, tramite il confronto con gli aggrediti. Esse si muovono nella prospettiva di un annientamento, sic et simpliciter. Assai eloquente, in merito a quest'ordine di considerazioni, si rivela quanto Jünger ebbe a scrivere, nel 1930: “proprio nell’ultima guerra sono esistite zone di annientamento la cui visione può essere descritta solo ricorrendo a paragoni con catastrofi naturali”[23].

V. Terrore nell'aria

    Abbiamo già accennato al legame – la cui gravità ed essenzialità, invero, furono marcate da Schmitt durante tutto il corso della sua attività – tra terraferma e mare aperto come cardine di ogni ordinamento giuridico. É ora il momento di insistere sull'equazione che fonde e confonde guerra e territorialità, in virtù del quale potremo comprendere in che misura la guerra come puro annientamento sia condotta essenzialmente su scala aerea.
    Come già ampiamente messo a fuoco, nello Jus Publicum Europaeum, la dimensione bellica è legata al territorio europeo – essa è interdetta, ad esempio, sul suolo coloniale – rivelandosi, dunque, di natura eminentemente terrestre. Justus hostis, neutralità ed aequalitas hostium sono precetti che acquistano significato solo all’interno di una sfera conflittuale di tipo terrestre. Nel caso della guerra marittima, il significato del conflitto muta radicalmente – metamorfosi che incontrerà, come vedremo, un dispiegamento totale nel bombardamento aereo.
    Contestualmente al conflitto avente come sfondo ambientale il mare aperto, è difatti evidente che:
    - La possibilità della neutralità non è vi ammessa; sempre più raramente le navi “possono issare bandiera bianca e consegnarsi al nemico come una fortezza nella guerra terrestre”[24]. Sul suolo acqueo, ogni imbarcazione viene inclusa nello scontro e trattata secondo un codice marziale assolutamente peculiare.
    - In esso, punto di riferimento non è più lo Stato, in quanto, a seguito della drastica riduzione del diritto di neutralità, anche truppe private, non statali, possono trovarsi coinvolte nel conflitto. Il diritto di preda che coinvolge privati, contrabbandieri e violatori di blocchi risulta coincidere a quello concernente le truppe statali.
    - Tuttavia, il privato non è contemplato come parte belligerante – eppure, si trova ugualmente coinvolto negli scontri. La sua azione esige una nuova collocazione legale. Egli non è propriamente uno justus hostis, non lo è quanto uno Stato, giacché si muove in ambito apolitico, nella terra di nessuno dei flutti marini – lo stesso terreno vergine occupato da quella libera economia che inghiottirà, in misura vieppiù crescente, la stessa auctoritas politica[25]. A questo livello si verifica un corto circuito che mina, sino alle fondamenta, il precedente ordinamento.
    La guerra marittima, nata dall'estensione ai mari di ordinamenti giuridici preesistenti, si rivela dunque essere radicalmente differente da quella terrestre. Ciò si palesa pienamente nel momento in cui gli strumenti della guerra marina vengono rivolti verso la terraferma. Qui, ovviamente, non si incontra una occupazione territoriale, come nel caso della guerra terrestre, quanto piuttosto un blocco costiero. L'assedio diviene embargo.
    É bene indugiare su questa differenza – giacché siffatto transito, lungi dal concernere unicamente le sfere giuridiche e politiche, fonda un nuovo modo, inedito ed inaudito, di frequentare le figure del mondo. Nel caso dell’occupazione terrestre vi è un rapporto diretto, positivo e immediato tra occupante e occupato. L’autorità dell’occupante si scontra con un ordine preesistente – il quale, sovente, viene lasciato immutato, per ragioni eminentemente pratiche, da parte dell'occupante. Nel caso dell'embargo, invece, chi organizza il blocco navale non prende minimamente in considerazione l’ordinamento del territorio bloccato, in quanto ha con esso un rapporto solo ex negativo, in quanto meramente bloccante e non interagente. Territorio e popolazione “non sono altro per essa che la meta di un’azione di forza e l’oggetto di una coazione militare”[26]. La flotta che monitora il territorio, quand’anche a poche miglia dalla costa, diviene sempre più lontana. Rispetto alla guerra terrestre, sottolinea Schmitt, “la guerra marittima contiene invece in grado assai più elevato elementi della pura guerra di annientamento”[27]. Il mutamento è decisivo ed irreversibile. La relazione spaziale tra occupante e occupato, che costituisce il nucleo pulsante delle guerre condotte nell'orizzonte spaziale terrestre, viene meno. Il nemico diviene quasi un'idea, sempre più astratta. Questo congedo annuncia nuovi volti della guerra – nemmeno pensabili, tramite le categorie spirituali preesistenti. Lo stretto rapporto tra protezione e obbedienza, fulcro costitutivo di ogni tipo di forza in quanto tale – che scaturisce dalle due polarità belligeranti, investendole entrambe – si scioglie definitivamente.
    Nonostante le vicende marittime si avvicinino di gran lunga al luogo del puro annientamento, è solo con la guerra aerea che ci troviamo innanzi ad un conflitto che altro fine non ha se non lo sterminio totale e massificato. Innanzi a questo nuovo tipo di guerra, le analogie ricercate dai giuristi con mare e terraferma non giovano: le vecchie categorie si rivelano inefficaci, per il suo inquadramento. L'evento è epocale. Il binomio guerra/diritto di preda perde definitivamente la sua efficacia, nel determinare la natura dei conflitti ed impedire che essi degenerino in carnai. É evidente che qualcosa come un bombardamento aereo nulla ha a che fare con la possibilità di fare preda. La perdita di contatto tra aggressore e aggredito è verticale, assiale, totale; un'incursione aerea non ha che “il significato e il fine esclusivo dell’annientamento. La guerra aerea autonoma (…) si distingue da quei due altri tipi di guerra per il fatto che essa non è affatto una guerra da preda ma è una pura guerra di annientamento”[28]. Se nella guerra terrestre il fine di ogni azione è l’occupatio, se in quella marittima la molla del conflitto è la possibilità di far bottino, di de-predare, nell'ultimo caso entrambi gli aspetti risultano assenti. D'altra parte, che razza di preda o di occupazione possono esservi, dove sono le bombe a fare le veci di un esercito?
    Abbiamo dunque individuato il vero e proprio discriminante della guerra aerea nella sua finalità, vale a dire il puro annientamento. Essa non è così designata per la crudeltà dei suoi mezzi ma per la ragione che la mette in moto: il suo fine non è l’occupazione del territorio ma la sua pura e semplice devastazione; altra funzione essa non ha se non il dissodare con il fuoco il terreno nemico e la popolazione dello Stato attaccato. L’occupatio, vera e propria limitazione della guerra nel diritto internazionale europeo, passa in secondo piano, e con essa il rapporto instaurantesi tra attaccante e attaccato: il bombardiere “adempie alla sua funzione di annientamento e abbandona quindi immediatamente al suo destino (…) il territorio bombardato, con le persone e le cose che vi si trovano”[29]. Venendo meno ogni limitazione, la dimensione infera della guerra raggiunge la superficie e si riversa sui popoli. Marte ha la meglio su Eracle. Per la prima volta, la dimensione del conflitto trascende le facoltà umane. Queste – si badi bene – le vittorie del genio umanista! Queste le sinistre propaggini di un pensiero che anela ad annichilire gli oscurantismi che ancora intendono limitare l'incedere di scienza e tecnica! Nell'annientamento, lo spirito umanista e illuminista celebra le sue vittorie, in un banchetto di sangue.
    Per quanto concerne poi la spazialità, in senso vero e proprio, del nuovo annichilire, è giunto il momento di fare alcune precisazioni. La pura alterità del nuovo teatro di guerra non ha alcun rapporto con l’ignoranza medioevale della superficie marina, né con la netta separazione tra mare libero e terraferma operata dai moderni: questo spazio è totalmente alieno dai consueti rapporti terra-mare. Entrambe le territorialità “soggiacciono indistintamente all’azione dall’alto verso il basso proveniente, nella guerra aerea, dallo spazio aereo”[30]. La sua posizione è inaudita – essa  irrompe come una terza dimensione non più abitata dagli dei olimpici o della schiere angeliche medioevali ma da lunghe processioni di dispositivi tecnici che scaricano piombo sui villaggi.
    Le due superfici orizzontali, opponentesi vicendevolmente, vengono trascese da un conflitto che non muta in base al suo svolgersi in terra o in mare ma mantiene una sua identità a-spaziale. Sempre meno i piloti devono fare i conti con la superficie sottostante il loro librarsi mortifero, come, ad esempio, nel rispetto della proprietà privata, sulla terraferma. Dalla prospettiva aerea, terra e mare si somigliano sempre di più: da questa equivalenza sorge la possibilità di compiere, su una proprietà privata non più inviolabile, come accade secondo i principi della guerra marittima, un “legittimo annientamento”[31]. Proprio qui accade il miracolo: dopo l'introduzione dello spazio aereo quale nuovo palcoscenico bellico, gli attacchi diretti alla terraferma avvengono sotto una legiferazione di sapore amaramente marittimo – pubblico/statale e privato perdono ogni carattere distintivo. Il pilota non saprà, al momento dello scaricamento del materiale, se i suoi giocattoli andranno a colpire una fabbrica di armamenti o un orfanotrofio. Egli deve tenere conto della terraferma e del mare libero, nonché dei reciproci ordinamenti, ma sempre da un topos totalmente delocalizzato ed alieno da questi ultimi: uno sguardo atopico, privo di collocazione territoriale. Traendo spunto dalla mancanza di delimitazione propria alla superficie marittima, l'aviazione militare non conosce le divisioni che solcano il terreno sottostante. La guerra aerea si serve dell'annichilimento del nomos promosso dalla dimensione oceanica.
    Mentre l’opposizione terra-mare è orizzontale, come i conflitti ivi svolgentesi, la verticalità e l'assialità della guerra aerea oltrepassano interamente la dimensione spaziale convenzionale; proprio per questo essa risulta inaccessibile a una legalizzazione, una normalizzazione, in quanto totalmente altera rispetto al vecchio conflitto europeo, inscrivibile e limitabile all’interno del trinomio guerra-localizzazione-ordinamento. É questa tipologia conflittuale a rendere tangibile la nuova concezione dello spazio, che tuttora mantiene una validità non passibile di messa in discussione alcuna. Un nuovo nomos va annunciandosi, è evidente. La guerra aerea, sfuggendo a ogni classificazione spaziale tradizionale, non si radica più in una territorialità specifica ma, nella sua atopia, raggiunge una utopica indefinibilità giuridica, divenendo un mezzo per strangolare le popolazioni. Utopia ed atopia: la intima parentela tra queste sfere semantiche e ideologiche irrompe, in tutta la sua violenza. Come nota Schmitt, “utopia non significa infatti semplicemente non-luogo, Nowhere ma l’ U-Topos per eccellenza, una negazione in confronto alla quale persino l’A-Topos  possiede un legame più forte, pur nel negativo, con il Topos”[32]. L’utopia altro non è che la negazione radicale di ogni localizzazione, proveniente da una spazialità assiale che trascende interamente la territorialità, il preludio della “totale perdita di luogo della tecnica moderna”[33]. Ci troviamo al cospetto di un'idea, in senso vero e proprio: sotto il suo segno, le favole utopistiche, il police bombing indiscriminato e la Heimatlosigkeit promossa e richiesta costitutivamente dalla globalizzazione entrano in singolare congiunzione. Lo spazio percorso dai cacciabombardieri precorrerà il dissolvimento delle frontiere nazionali che caratterizzerà la Weltzivilisation, il villaggio globale.
    Contemporaneamente, il nesso tra sogno umanitario di una utopia proiettata in un futuro sempre più lontano[34] e lo sterminio incondizionato appare sempre più evidente.

VI. Atmoterrorismo e mobilitazione totale

    Anzitutto, un chiarimento. Parlando di mobilitazione (Mobilmachung)[35] e tecnocrazia nella guerra come puro annientamento, non intendiamo di certo affermare che solo nel caso di quest'ultima la tecnica venga mobilitata a fine bellico. Tuttavia, ci sembra opportuno mettere adeguatamente a fuoco questa intima parentela. Non che le guerre precedenti ignorassero l'utilizzo di dispositivi tecnici – dacché esiste la mano che impugna, esiste la clava. Nessuna di esse, tuttavia, come ribadiremo in sede conclusiva, venne intesa quale autentica officina di prova di strumenti tecno-scientifici, come accadde invece presso i campi di battaglia novecenteschi. Questo tratto discriminante è fondamentale; esso inaugura, a tutti gli effetti, un modo inedito di guerreggiare. Intendiamo insomma mostrare come la mobilitazione della tecnica contestualmente al bellum non sia un aspetto marginale della guerra moderna ma come, al contrario, ne costituisca, in qualche modo, la quintessenza. Sebbene la nostra attenzione si porti ora altrove, presso le riflessioni di altri[36], questo non toglie che la guerra aerea schmittiana sia un punto di riferimento fondamentale per chi vada cercando il luogo dello sviluppo – se non della genesi – di quelle fucine dell’industria della morte che, dalla prima Guerra Mondiale, non chiudono mai i battenti, nemmeno in tempo di pace.
    Il legame tra tecnica e annientamento non venendo affrontato direttamente da Schmitt, nel lavoro che consideriamo, se non, come vedremo, in relazione alla criminalizzazione del nemico, prendiamo temporaneamente commiato dalle pagine de Il nomos della terra per volgerci al pensiero di Ernst Jünger[37] e, marginalmente, a quello di Peter Sloterdijk – il quale, nel suo studio sull'impiego dei gas tossici nei conflitti novecenteschi[38] ha messo ottimamente in luce tanto l'emergere di un nuovo modo di interpretare lo spazio globale a partire dall'impiego di mezzi di attacco aereo quanto la centralità che la tecnica va assumendo in sinergia all'emergenza della categorie del pensiero moderno.
    La tematica è assai attuale. Nel XX secolo assistiamo all’impiego sempre più massiccio di mezzi di distruzione di massa durante i conflitti, che non si svolgono più tra soldati ma tra autentici operai della distruzione. Non si tratta più di caste guerriere che imbracciano l’arme ma di masse intere, condotte indiscriminatamente al macello, sotto l'Ordre de Mobilitation Géneral: eppure, “il vero soldato impugna soltanto controvoglia i nuovi strumenti della guerra che la tecnica mette a sua disposizione. Nei moderni eserciti, armati con gli ultimi dispositivi tecnici, non c’è più una corporazione di guerrieri che si batte utilizzando quei mezzi tecnici”[39]. Dove la tecnica avanza fa piazza pulita dei simboli tradizionali – in questo caso, è la casta guerriera a risentire della tirannia del Forestaro jüngeriano[40], incarnazione delle forze elementari, telluriche e ctonie scatenate dalla Modernità. La battaglia dei materiali ospiterà, in misura sempre crescente, le masse atomizzate e uniformate del mondo del lavoro.
    La guerra novecentesca esibisce uno scontro non più tra schiere di guerrieri ma tra potenze industriali: dalla funzione dei rifornimenti durante la stasi nelle trincee all’utilizzo della bomba atomica, dai “bombardamenti umanitari” delle città di Dresda e Norimberga[41] all’impiego del napalm durante il conflitto in Vietnam – tutto sembra ricondurre la guerra ad una esercitazione strategica, al semplice collaudo di nuovi mezzi tecnici. In questa fase altro non incontriamo se non uno “sviluppo tecnico-industriale dei mezzi di annientamento”[42]. Da scontro politico, il conflitto diviene esperimento. Sul campo di battaglia non più soldati, non più caste di asceti-guerrieri ma operai specializzati, addetti ai macchinari che l’industria fornisce al confronto bellico; lo scontro vero e proprio accade tra i finanziamenti che gli stati stanziano per promuovere una “ricerca” che ora rivela il proprio volto notturno. Non è più il segnale della carica che annuncia lo scontro frontale della cavalleria[43] ma l’urlo della sirena annunciante un imminente bombardamento aereo, meccanico, nel quale la funzione dell’uomo è ridotta a quella di tecnico: raggiungere l'obiettivo, scaricare, ripartire.
    Nello scenario retrobellico, il paesaggio muta altresì radicalmente: per ottenere una collocazione nella nuova economia, ogni industria deve rivolgersi alla produzione di materiali funzionali al bellum, che non si limita più alla semplice azione armata svolgentesi in un territorio ben delimitato ma coinvolge la vita civile, in ogni sua sfaccettatura; “accanto agli eserciti che si scontrano sui campi di battaglia nascono i nuovi eserciti delle comunicazioni, del vettovagliamento, dell’industria militare: l’esercito del lavoro in assoluto”[44]. La guerra diviene totale. Il volto del soldato e quello dell'operaio acquisiscono fisionomia similare. Sotto il casco protettivo e l'elmetto militare, si scorgono gli stessi tratti aguzzi, metallici, chirurgici[45].
    Così, come ci ricorda Peter Sloterdijk, la differenziazione tra guerra e pace è la cartina tornasole che rivela il carattere oscuramente ambivalente della tecnica: durante il conflitto, le forze tecno-industriali, che in tempo di pace producono, ovviamente, tutt’altro che armamenti, divengono le fucine di una guerra di distruzione pura. Tutto viene mobilitato: se un'industria che produce profumi non si mette a trattare gas tossici, essa perde la sua importanza. In questa improvvisa svolta, umanismo e terrorismo rivelano la loro radice comune: Fritz Haber, direttore del Kaiser-Wilhelm-Institut per le ricerche sulla chimica fisica e sull’elettrochimica, produttore di gas da sterminio e noto premio Nobel, poté  annunciare fieramente di “aver operato in tempo di guerra per la patria e in tempo di pace per l’umanità”[46]. Risulta degna di nota questa strana contrapposizione tra patria e umanità. Ciò che sorprende maggiormente, tuttavia, è il radicarsi di entrambi i principi nel vecchio scienziato, al contempo premio Nobel e atmo-terrorista, nuovo Giano bifronte incapace di unificare il servizio alla patria e la cura dell'umanità.
    Ma torniamo a Jünger. Laddove egli afferma che, nel conflitto del XX secolo “il genio della guerra si congiunge con il genio del progresso”[47], intende esattamente ciò che Schmitt tratta nell’ultima parte dell’opera da noi analizzata, che andremo ora a tematizzare.
    Singolare, mai ci stancheremo di ribadirlo, questo carattere ambivalente della tecnica moderna. Se in tempo di pace essa dispiega qualsiasi strumento in suo possesso per la conservazione quantitativa della vita umana – spesso, anzi, a discapito della sua qualità, come dimostrano le attuali polemiche intorno all'eutanasia – al mutare della neutralità degli Stati essa si adopera per l'annichilimento umano. L'aspetto più sconcertante di essa risiede nel fatto che tra questi due momenti non vi sia, in fondo, alcuna contraddizione. Se essi appaiono antitetici, ciò non rappresenta che la superficie della problematica. Essi sono, invece, intimamente solidali e compresenze del genere ne sono la tragica testimonianza. La glorificazione di scienziati che adoperano le loro forze per sterminare parassiti in tempo di pace ed esseri umani in tempo di guerra rivela il carattere tellurico del progresso, della tecnica e della Modernità – morfologicamente, null'altro che sinonimi. Guerra e pace, d'ora in poi, saranno concetti ideali sempre più fluidificati.

VII. Bombardamenti materiali e morali

    La questione della tecnica, contestualmente al nuovo tipo di scontro, o meglio, il fatto che “in questo tipo di guerra aerea è in gioco soltanto un problema di natura tecnica”[48], conduce Schmitt alla trattazione del modo di considerare l’avversario attaccato. Dove non si ha come obiettivo il bottino o il patteggiamento, anche la natura dell'avversario muta. In modo sorprendente. Un passo indietro può aiutare l'inquadramento di questo fenomeno.
    Nell’impianto giuridico fondato sullo Jus Publicum Europaeum, come abbiamo visto, la guerra viene intesa come duello tra stati-persona eguali tra loro. L’aequalitas hostium è ciò che impedisce di vedere nel nemico un criminale, un ribelle o un pirata – questi ultimi essendo totalmente estranei a qualsiasi tipologia di ordinamento. La guerra, accadente in un orizzonte europeo, prevede la partecipazione di tutti gli stati. Questi, laddove decidano di non prendere parte al conflitto, ne fungono, per così dire, da spettatori e giudici. La neutralità è garanzia, in qualche modo, del rispetto da parte delle fazioni belligeranti delle regole pattuite concernenti aggressione e difesa – la politica mantiene ancora un primato sulla tecnica e, come vedremo, sull'economia. Non è casuale che, con il predominare di queste ultime sulla prima, mantenere uno stato di neutralità durante i conflitti su scala globale divenga sempre più problematico.
    L’avversario non viene criminalizzato ma giudicato, all’interno dell’ordinamento vigente, come dotato della medesima dignità dello stato attaccante nonché di quelli neutrali. Di altro non si tratta, lo riconosciamo facilmente, che di una delle già trattate limitazioni del conflitto – in imprese di questo tipo, nessuno dispone della mancanza di pudore necessaria alla criminalizzazione di intere popolazioni. Soprattutto, laddove esse siano messe a fuoco come obiettivo di un'azione di tipo bellico.
    Nell’evo della guerra aerea, l’immagine dell’avversario subisce un brusco mutamento: da justus hostis egli viene designato come un criminale. Con il venir meno di uno scontro paritario, si spalancano al contempo nuove abissali possibilità di aggressione, di inaudita violenza. L'avversario viene depauperato di ogni fattezza umana per divenire, nell'immaginario dei nuovi conquistadores, un errore da correggere. Con ogni mezzo disponibile. Le parole del già citato Ernst Jünger sono, in merito, piuttosto eloquenti: “La guerra civile su scala planetaria ha modificato i valori. Le guerre nazionali vedevano contrapposti reciprocamente i padri, le guerre civili i fratelli. Da sempre la cosa migliore è risultata quella di cadere sotto la mano del padre anziché nelle mani del fratello: è più semplice essere nemico nazionale anziché nemico sociale […]. Quando sulla bandiera si scrive il termine umanitarismo, ciò significa non soltanto l'esclusione dell'avversario dalla società, ma anche il rifiuto di ogni diritto umano in genere. Si spiegano così il ritorno alle torture in vasti territori, il trasferimento delle popolazioni, la concezione mercantile dell'uomo, le forme ufficiali e criminali della cattura di ostaggi, i cannoni sempre puntati”[49].
    L’aggressione bellica acquista la sua giusta causa dalla distorsione dell'immagine del nemico, non più distinto dal criminale e dal ribelle ma discriminato propriamente in quanto tale. Laddove, insomma, il nemico viene criminalizzato, risulta giustificata ogni azione bellica diretta contro di esso, a prescindere dalla sua crudeltà e sommarietà: “la discriminazione del nemico quale criminale e la contemporanea implicazione della justa causa vanno di pari passo con il potenziamento dei mezzi di annientamento e con lo sradicamento spaziale del teatro di guerra. Il potenziamento dei mezzi tecnici di annientamento spalanca l’abisso di una discriminazione giuridica e morale altrettanto distruttiva”[50]. Queste righe sunteggiano brillantemente quanto sino ad ora trattato. Il già accennato legame tra industria, tecnica e puro annientamento diviene momento genetico, fondante – qui inizia la Modernità e la modalità di belligerare ad essa connessa. Se l’avversario è un criminale il suo agire non acquista valore in relazione a un ordinamento sovrastatale, interstatale, come nel diritto internazionale europeo. Risulta, invece, colpevole, sempre e in ogni caso. Da avversario di uno Stato, diviene avversario di tutti gli Stati. Il suo capo di imputazione non è giuridico ma morale, anzi, umano. Egli, pur opponendosi ad un popolo, si schiera contro l'umanità intera.
    Se nel diritto internazionale europeo il criminale non è riconosciuto propriamente come polarità possibile di un conflitto – svolgentesi sempre all’interno di una aequalitas hostium – nel panorama politico-economico che fa da sfondo alla guerra come puro annientamento, esso viene a coincidere con lo stato aggredito. Questi diviene, in quanto nemico ab-soluto (sciolto dunque da ogni relazione interstatale), perseguitabile in ogni modo, tramite qualsiasi mezzo. Laddove la sua correzione non sia stata possibile, esso deve essere annientato. A tutti i costi.
    É compito della tecnica, è questo il punto, potenziare gli strumenti di puro annientamento in dotazione allo Stato aggressore, il quale non agisce più in quanto Stato belligerante ma nella forma di un restauratore della giustizia universale, violata dall'aggredito.
    É per salvaguardare il “bene comune” – concetto tanto astratto quanto arbitrariamente utilizzabile, come hanno magistralmente dimostrato le guerre condotte negli ultimi cinquant'anni – che vengono compiute nuove azioni. Ecco il colpo maestro: il bene di uno Stato viene assunto come bene comune e dettame universale. Non è da escludersi che, come certi alberi esibiscono scritte o iniziali incise da amanti, sulle tavole di legno della ghigliottina i carnefici abbiano inciso la Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo.
    Gli ordinamenti continentali si trasformano in palazzi di giustizia, il cui braccio secolare è gestito da scienziati e tecnici specializzati. Lo sfondo metafisico dei nuovi ordinamenti si rende intuibile – messo al bando da Alberico Gentile, il teologo torna a riscuotere il conto.
    L’attacco è preceduto non più da una dichiarazione di guerra bensì da accuse d’infamia, rivolte allo stato inquisito e diffuse dai media su scala planetaria – la sua capitolazione dovrà avvenire in diretta, in prima serata, sotto gli occhi di tutti. Il criminale viene isolato: “nella misura in cui oggi la guerra viene trasformata in azione di polizia contro i turbatori della pace, criminali ed elementi nocivi, deve anche essere potenziata la giustificazione dei metodi di questo police bombing. Si è così costretti a spingere la discriminazione dell’avversario in dimensioni abissali”[51]. L’utilizzo dei mezzi di annientamento è giustificato da una Weltanschauung che che indica una dicotomia globale tra Stati ab-solutamente innocenti e portatori di giustizia – epperò, curiosamente, in modo decisamente poco innocente – e ab-solutamente colpevoli, da correggere, in nome del “bene comune”.
    In momenti come questi il Bene Assoluto deve sconfiggere la colpevolezza, anche a costo di annientarla. Certo, resta solo da definire i membri di queste misteriose fazioni. Sfortunatamente, il principio di questa definizione non appartiene ad una divinità bensì ai cosiddetti “Stati innocenti”, promotori di una nuova crociata che, invero, nulla ha a che fare neanche con una “resurrezione delle dottrine cristiane”[52], come, invece, ebbe a sostenere il giurista americano James Brown Scott, violentemente contestato da Schmitt nel saggio in questione. Nulla ha di cristiano o di medievale giacché la dicotomia cristiano-cristianizzabile relativa al nomos della terra ai tempi della respublica christiana è superata, obsoleta, rispetto al positivismo umanista totalitario che si impone. Dopo il tramonto di Dio, è il progresso a richiedere tributi di sangue. Questa volta, accuratamente cifrati e pianificati. Se nel medioevo la fonte che autorizza l’utilizzo delle armi a lunga gittata è di natura teologico-religiosa, nella contemporaneità il nuovo criterio è proprio la criminalizzazione del nemico. Essa legittima un’azione condotta con mezzi il cui unico fine è la devastazione totale di chi altra caratteristica non possiede, se non l’infamia.
    Questo nodo è fondamentale. Qui la supremazia della tecnica sugli ordinamenti politici esibisce un retroscena piuttosto inquietante. Non disponendo di uno spazio sufficiente a sviscerare l'intera questione, nelle sue molteplici sfaccettature, ci limiteremo a fornire, sopra di essa, pochi orientamenti essenziali.
    Il rapporto della tecnica con gli altri domini del mondo moderno è qui questionato a partire dal rapporto tra guerra e utilizzazione di dispositivi. L'importanza della tecnica nella contemporaneità è indagata lungo il suo crinale bellico. Come intendere gli sviluppi del potenziale militare in relazione al divenire della scienza e della tecnica moderne? Questa è la domanda fondamentale. Ora, delle due, l'una: la guerra si giova, di volta in volta, degli strumenti di cui la tecnica fornisce una disponibilità, ovvero i mezzi tecnici, in se stessi, esigono nuove forme di guerra – e di ordinamento, giuridico e morale – per poter espletare le proprie potenzialità[53]. Il novero di autori qui citati sembra propendere per quest'ultima ipotesi.
    Procediamo cautamente, giacché la questione è assai delicata. La scienza moderna è eminentemente pragmatica e strumentale: laddove una teoria non abbia come proprio momento apicale la produzione di alcunché, viene immediatamente abbandonata, a favore di ipotesi più utili, ossia traducibili praticamente in minor tempo – viene a cadere, dunque, la distinzione tra scienza e tecnica, tramite la quale i partigiani del progresso tentano di difendere la prima, scrollandole di dosso eventuali responsabilità relative a talune applicazioni della seconda. Ma una scienza senza rifrazioni tecniche oggi non è nemmeno pensabile. Essa non è ricerca per la ricerca – da qui il suo distacco dall'épisteme greca – ma si risolve interamente in realizzazioni di ordine tecnico. Una teoria, presso i Moderni, non è nemmeno degna di questo nome, in mancanza di una sua traduzione meccanica immediata[54].
    Eppure, il problema risiede proprio in questi dispositivi. É evidente che la produzione di essi è finalizzata all'utilizzazione degli stessi. Ebbene, quali condizioni possono consentire, giustificare e legittimare, l'utilizzo di arnesi atomici in guerra? Quali condizioni contemplano, all'interno del proprio orizzonte, lo sterminio incondizionato dell'avversario? Qui raggiungiamo il nocciolo teoretico delle pagine analizzate.
    Potranno mezzi di tale portata essere scagliati contro un justus hostis? Evidentemente no – dacciò, la crescente disumanizzazione dell'avversario. É il loro utilizzo a rendere necessaria l'apposizione di maschere mostruose al nemico. L'impiego di mezzi tecnici di questa fattura – condizione di validità del loro esistere, della teoria che li pose in essere e via dicendo – richiede che l'avversario sia ridicolizzato, denigrato, volgarizzato, criminalizzato[55]. Solo attraverso queste sclerotizzazioni – che l'umanità che conobbe l'aequalitas hostium quale sigillo infrangibile del confronto bellico avrebbe considerato quantomeno grottesche – la tecnica può esplicare le sue possibilità, essere all'altezza della funzione attribuitale dalla Modernità. Uomini e parassiti, per Fritz Haber, coincidono – la tecnica celebra i suoi trionfi, assisa sul trono globale.
    Con queste parole, Schmitt chiude il lavoro che abbiamo messo a fuoco: “Ricordiamoci di una sentenza hegeliana: l’umanità, nel passaggio dal feudalesimo all’assolutismo, aveva bisogno della polvere da sparo, ed eccola apparire. Forse che anche i mezzi moderni di annientamento sono comparsi perché l’umanità moderna ne aveva bisogno? (…) In ogni caso c’era bisogno di una guerra giusta per giustificare l’impiego di tali mezzi di annientamento[56].

VIII. La Modernità dispone di un proprio nomos?

    Terminata l'esposizione sommaria di ciò che la guerra di puro annientamento rappresenta nell'ottica di Carl Schmitt, proviamo, dunque, come anticipato, a cercare in essa una chiave di lettura che ci permetta di decifrare, per quanto possibile, i geroglifici che costellano la nostra realtà storico-destinale in quanto Europei, Occidentali e, secondo una triste formula quanto mai inflazionata, citizens of the world.
    Se ogni guerra, difatti, è connessa a un certo nomos dal quale trae legittimazione, giustificazione e delimitazione, possiamo forse trovare proprio nell'annichilimento degli spazi operato dalla guerra aerea qualcosa del nostro stesso essere al mondo. Forse la geografia spirituale che rende fattibile un'incursione aerea è la medesima che legifera sul dispiegarsi di quelle forze che, come meridiani e paralleli metafisici, attraversano oggi il nostro pianeta.
    Un rapido sguardo preliminare potrà gettar luce su ciò che siamo – o meglio, su ciò che siamo diventati. Il nostro destino è oggi legato all'interezza del globo. Alla sua globalità. Il mondo può essere ora visto in quanto tale, a tutti gli effetti. La vertigine che tale idea avrebbe causato nei pre-moderni nemmeno può essere pensata. Un nuovo ordinamento sorge, una fitta matassa di collegamenti capillari, in cui ogni parte non può ottenere un riconoscimento dalla globalità, ricevendo da essa stessa il diritto di sussistere, senza sottostare alla sua logica omicida.
    Sistema, meccanismo, tecnocrazia: la stessa radice semantica di questi termini ci può dire molto di più dei proclami per il tramite dei quali l'attuale ordinamento celebra le proprie gesta. Il Leviatano globale è sovra-umano, trans-umano, post-umano. Guillaume Faye ha esemplarmente illustrato l'irreversibile trapasso nell'inorganico del reticolo planetario che avvolge il globo. Innanzi ad un tale sovvertimento, scrive, persino il concetto spengleriano di civilizzazione è anacronistico – esso mantiene caratteristiche ancora umane, mentre il sistema, nuova maschera della Weltgeschichte, è alcunché di meramente meccanico. Se la Zivilisation de Il tramonto dell'Occidente obbedisce pur sempre ad una logica di ordine organicista, il sistema globale può essere descritto attraverso una grammatica radicalmente differente: “Ciò che nasce sotto i nostri occhi, dopo una lunga maturazione in seno all’ideologia egualitaria occidentale apparsa nel diciassettesimo secolo, non ha più nulla di una civilizzazione. L’antagonismo tra civiltà e civilizzazioni (…) è oggi superato. La realtà attuale sono le entità etnoculturali e nazionali minacciate di estinzione, i popoli poco a poco svuotati della loro sostanza da una macrostruttura sovracontinentale. Senza territorio, ma installata ovunque, questa piovra gigante si fonda innanzitutto sull’organizzazione della tecnica e dell’economia. Culture, nazioni, regioni, tutti i raggruppamenti umani forgiati dalla storia sono le sue prede potenziali. Questa macrostruttura in via di installarsi sul mondo – a partire da una metamorfosi della civilizzazione occidentale – può essere definita un sistema. Una civilizzazione, foss’anche mondiale, si fonda sempre su di un passato culturale e mira, più o meno, a perpetuarsi. Una civilizzazione resta umana. Un sistema, al contrario, ha qualcosa di meccanico e di atemporale, anche se è «funzionante». Una macchina, una cellula cancerosa, sono a titolo diverso dei sistemi (…). Mentre la società liberale si persuade di aver costruito un mondo di prosperità, di liberazione e di progresso, la realtà sociale lascia trasparire un ambiente anorganico, cioè morto, senza vita interiore, più simile ad un macchinario che ad un organismo in crescita”[57].
    Il nuovo meccanismo soffoca le popolazioni. Esso tende ad azzerare la natura storica e geopolitica delle singole etnie – non è di certo casuale il suo odio abissale diretto al passato dei popoli e ai confini tra Stati. Se, come afferma Schmitt, la radice di ogni popolo è di natura territoriale, dove la geopolitica specifica e peculiare va scomparendo cessa di esistere anche il popolo ad essa connesso. La domanda circa il nuovo ordinamento mondiale viene rivolta intorno al destino dei singoli popoli. Ma se la genesi di ogni popolo accade in un ambiente, in un territorio ben preciso, allora la riformulazione della questione seguirà un'altra direzione: in che misura si può ancora parlare di un radicamento dei popoli? In che misura può darsi un nomos ad essi proprio?
    Il che conduce ad una formulazione ancora più generale: in che misura può sorgere un nuovo nomos nell'attuale assetto globale? Può quest'ultimo essere all'altezza del suo nomos? La modernità, in ultima istanza, ne possiede uno? E, laddove la risposta a quest'ultimo quesito sia affermativa, di quale tipo di individuo esso verrebbe a presiedere la genesi? Quale tipo umano è all'altezza della Weltzivilisation? Queste domande, probabilmente, otterranno risposte convincenti allorché quegli assetti che nel momento in cui scriviamo vanno sinistramente profilandosi acquisiranno una stabilizzazione definitiva. Oggi come oggi, invero, non assistiamo che alla diffusione massiva di un paradigma. La circolazione di esso è sempre più veloce, i suoi tentacoli ci raggiungono in tempo reale – resta, purtuttavia, un paradigma regionale. Mentre scompaiono, in misura accelerata, le divisioni, sotto la spinta sotterranea di un livellamento totale, va annunciandosi una formula che, superate le attuali intemperie, acquisirà consistenza: essa è, nelle parole rivolte da Ernst Jünger a Julien Hervier, “lo Stato universale. Tecnicamente è già realizzato, ma la politica segue l'evoluzione tecnica zoppicando”[58].
    Proviamo ad orientarci. Macroscopicamente, la territorialità nell'evo della civilizzazione globale appare quanto mai estesa. Essa non conosce confini statali o blocchi continentali ma il pianeta nella sua interezza, che appare come un mosaico concluso, un puzzle nel quale nessuna tessera aggiuntiva può trovare un incastro. L'evo delle scoperte è ormai alle nostre spalle. Ha ora inizio la fase della pianificazione e del reclutamento globale. Apparentemente, ciò altro non è se non l'enfasi estrema della territorializzazione, la creazione di un Heimat sempre più esteso, che funga da radicale comune, a livello planetario. Ognuno diventa citizen of the world, come ama definirsi il turista anglosassone innanzi a ciò che rimane di culture millenarie condannate a scomparire o divenire ricettacoli turistici. Ma questa ridicola pretesa non rappresenta che il lato superficiale di siffatto movimento. Il sogno ottimista del villaggio globale di Marshall McLuhan trae la sua scaturigine da un'illusione del genere. Che questa ottimistica comunione interculturale si sia tradotta in un livellamento di diverse qualità a una sola quantità, risulta sempre più evidente. Sono sempre di più coloro che si accorgono – seppur, sovente, in modo piuttosto confuso – di non trovarsi innanzi ad una missione propriamente umanitaria e civilizzatrice.
    I territori, inghiottiti dal nuovo ordine globale, scompaiono: al contempo, svaniscono le ricchezze qualitative ad essi associate. I popoli specifici, insieme al loro corredo peculiare, divengono mere chimere. Anche lo Stato, individuato da Schmitt come “il soggetto giuridico autonomo (…) contraddistinto dagli elementi del territorio, dei sudditi e del potere organizzato”[59], vede il suo declino nell'evo del totalitarismo globale. Parliamo di totalitarismo intendendolo nella sua forma più radicale: non v’è luogo che non tragga significazione del suo essere co-legato al meccanismo odierno. Dunque, in fin dei conti, non v’è più alcun luogo, almeno nel senso specifico e tradizionale del termine.
    Il sogno del villaggio globale si è trasformato in una gogna. Già ai tempi della Guerra Fredda innumerevoli furono coloro che intuirono un minimo comun denominatore delle due superpotenze mondiali, Nord America e URSS, che si sarebbe in seguito rivelata in tutta la sua forza inaugurando una inimmaginabile notte dei popoli. Forza che ora si espleta in tutta la sua estensione, dopo lo spegnersi delle due stelle, superando distinzioni ideologiche, politiche e sociologiche.
    Ne citeremo alcuni, a titolo esemplificativo. Ernst Jünger, nelle sue pagine dedicate alla profezia dello Stato mondiale, affermò: “si è portati a supporre che il colore bianco o rosso della stella dipenda solo dal suo vacillare, come quello dell'astro che compare al di sopra dell'orizzonte. L'unità appare evidente allo zenith”[60]. Intuizioni non molto differenti furono proprie a Julius Evola, che ebbe a scrivere, nel 1934, in tempi non sospetti: “Russia e America si rivelano come due espressioni diverse per una cosa unica, due vie per la formazione di quel tipo umano, che è la conclusione ultima dei processi presiedenti appunto allo sviluppo del mondo moderno”[61]. Per citarne solo alcuni. Non si dica, pertanto, che l'Europa non era preparata a questo stravolgimento. I profeti, inascoltati dai filistei del progresso, non mancavano.
    Una nuova forma individua e imprime il proprio sigillo su ogni singola componente, conferendole valore e ponendola in essere. Le vecchie peculiarità dei popoli divengono materiale da turismo, oggetto di collezionismi o feticci, tanto inautentici quanto il tempo che li ha prodotti. Il turista occidentale osserva compiaciuto il cambiamento dei paesaggi, i loro crescente uniformarsi secondo un modello che, abbandonate le fattezze politiche ed ideologiche del XX secolo, si manifesta oggi nella sua forma più pura. Egli si sente a casa propria in ogni dove. Non incontrerà mai un territorio radicalmente diverso dal suo.
    L'attacco prosegue, anche nei domini dello Spirito. Le religioni divengono sepolcri di morale, maschere di individualismi, scienze volte allo studio di déi psicologizzati o semplici instrumenta regni[62]. É l’evo delle seconde religiosità[63]: la ricerca di natura profana di ciò che ormai è nascosto, occultato. Dissoltasi la Tradizione, prolificano i tradizionalismi[64]. Tramontati gli Stati nazionali, nascono movimenti che esaltano particolarismi e regionalismi – materiale da dare in pasto alle masse affamate di mistiche[65], quand'anche da quattro soldi. Se il Dio fa capolino, cessa il sacro. Ma questi indugia ancora – il suo volto si scorgerà alla fine del ciclo, tra i resti della nostra contemporaneità.
    Ciò che abbiamo ravvisato come peculiarità della guerra come puro annientamento, ovvero l’in-differenza tra territori dal punto di vista assiale dello spazio aereo, trova, nell’epoca della Weltzivilization, il suo compimento nella pace. Nel meccanismo globale regna una singolare calma. Le tessere del mosaico appaiono immobili – dove la loro sagoma non corrisponde a quella richiesta dall'incastro, la loro imperfezione viene corretta da missioni civilizzatrici, spedizioni punitive e correttive. Il sistema trionfa sui popoli. L’abbattimento delle barriere tra Stati porta allo sradicamento delle comunità etno-culturali, divorate da un novello Leviatano e digerite come popolazione globale, citizens of the world.
    Una nuova forma fa capolino: in questa sede, non importa discutere di quale essa si tratti ma in che modo agisca annullando gli scarti, livellando le differenze. Darne una formulazione teorica compete agli artigiani delle fughe artificiali: ciò che sconcerta maggiormente è vedere la velocità con cui questo assorbimento ha luogo. I popoli vengono confinati in colonie penali di in-dividui atomizzati. Il sovvertimento è integrale.
    Il passaggio da una pluralità di civiltà ad una civilizzazione planetaria comporta un mutamento radicale, che ribadiamo ancora: le peculiarità civili, qualitativamente differenti, vengono ridotte a grandezze biopolitiche[66], misurabili tramite un unico sistema di riferimento. L’annientamento del territorio accade tramite il livellamento delle particolarità, lo richiede costitutivamente, tramite la trasformazione di ogni problema in questione economica[67].
    L’economia oltrepassa le barriere tra gli Stati prendendo il posto della politica, ridotta a chiacchiera, opinione pubblica e industria elettorale. Nell’accalorarsi odierno per le questioni politiche si perde di vista l’origine comune di ogni partito e organizzazione: il liberalismo, l’economia libera. Neanche i conflitti tra partiti giungono mai a questionare questo fondamento. Tecnocrazia, economia, liberalismo: ecco i vaticini dei nuovi auguri.
    É proprio il paradigma della libera economia a determinare la scansione dei nuovi territori. É l’aderire o meno al nuovo ordine mondiale che determina la differenziazione geografica. Contro chi resiste all’organizzazione viene scatenata una guerra “correttiva”, avente le caratteristiche di quell’azione di polizia di cui ci parla Schmitt. La genuflessione è la fonte delle nuove differenziazioni fra i territori. Tutto il resto è ormai caduto nell’inattualità. Che sia questo il nomos specifico della Modernità?
    In conclusione, non indicheremo alcuna pretesa soluzione. Non ci occupiamo di diagnosi apocalittiche o entusiasmi acritici, entrambi finalizzati a oggettivare positivisticamente la questione. Già domani queste parole risulteranno antiquate. Ciò che importa a chi scrive è la comprensione della direzione del movimento che coinvolge il globo nella sua totalità. Un mutamento sotterraneo celato da una calma macroscopica che avviluppa e anestetizza l’intero pianeta.
    L’immagine cardinale del nostro evo è scattata dai satelliti. I loro occhi meccanici ci mostrano la sfera terrestre nella sua ieraticità, fermezza e stabilità, celante le convulsioni delle ultime comunità locali, depredate dai nuovi conquistatori e ridotte ad acquirenti o annientate. Qui l'utopia si trova incastonata nel Weltgeschichte. La sua declinazione storica è affidata ai bombardieri. Triste epilogo – ma non inaspettato.
    Atomo di volontà di potenza. Che già si rivolge contro se medesimo. Ma questa è un’altra faccenda.


[1]    Il presente saggio venne composto contestualmente ad un laboratorio, organizzato dal dott. Maurizio Guerri presso l'Università degli Studi di Milano nell'anno accademico 2006-2007, concernente la dimensione planetaria della civilizzazione occidentale. Lo riproponiamo, in questa sede, interamente revisionato ed integrato, nella persuasione che le tematiche racchiusevi siano del massimo interesse, innanzi a problematiche che non possono lasciare indifferente chi abbia a cuore il destino del pensiero e della cultura continentali – e ciò, a maggior ragione, nell'Evo del dispiegarsi totale del meccanismo globale che attanaglia l'orbe in maglie sempre più strette.
[2]    E. Castrucci, La ricerca del nomos, in C. Schmitt, Il Nomos della terra nel diritto internazionale dello Jus Publicum Europaeum, a cura di F. Volpi, traduzione e postfazione di E. Castrucci, Adelphi, Milano, 1996, p. 436.
[3]    N. Gòmez Dàvila, In margine a un testo implicito, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano, 2001, p. 147.
[4]    Ovviamente, in senso spengleriano. Oswald Spengler, nelle sue opere di morfologia storica, divide il divenire delle civiltà – intese alla stregua di organismi che nascono, vivono e si spengono – secondo un duplice movimento. Dapprima, a partire dal loro sorgere, esse incarnano la figura delle Kulturen – in esse domina la qualità, la differenziazione, l'organicità, la gerarchia. In seguito, dopo aver raggiunto il proprio zenith espressivo, esse trapassano nelle spire delle Zivilisationen, delle civilizzazioni – dominio anarchico della materia, della quantità, del meccanicismo e via dicendo. La civilizzazione, lungi dall'incarnare un apice, diviene sintomo di decadenza, espletato appieno il quale, alle civiltà non resta che estinguersi, precipitare nell'inorganico. Ragion per cui la missione civilizzatrice dell'Occidente, lungi dall'apportare benefici globali, altro non si rivela essere che un insieme di convulsioni, segnale di un declino che investe, allo stesso modo, tutte le civiltà e che getta ora la sua ombra sinistra sulla nostra.
[5]    Cfr. C. Sini, Gli abiti le pratiche i saperi, Jaca Book, Milano, 2001.
[6]    Ciò permette, d'altra parte, di discutere il rapporto che intratteniamo con le epoche storiche alle quali il presente ha voltato le spalle. Questo studio, è bene chiarirlo, non viene condotto per cercare una significazione nel passato e ricostruirla o rievocarla, bensì per comprendere cosa ne è del nostro essere al mondo presente, a partire da questa differenza, da questo oblio. Perché accade il misconoscimento del nomos della terra? Cercheremo di rispondere più avanti. Una cosa è certa. Questo errore di traduzione appartiene interamente a ciò che siamo. Solo nel mondo moderno nomos può essere inteso come sinonimo di Gesetz.
[7]    C. Schmitt, Il nomos della terra, cit., p. 59.
[8]    Ibidem.
[9]    Cfr. R. Guénon, Il regno della quantità e i segni dei tempi, a cura di T. Masera e P. Nutrizio, Adelphi, Milano, 1982.
[10]  Cfr. C. Schmitt, Terra e mare. Una riflessione sulla storia del mondo, a cura di G. Gurisatti, Adelphi, Milano, 2002.
[11]  Cfr. C. Schmitt, Teologia politica, ne Le categorie del «politico», a cura di P. Schiera, Il Mulino, Bologna, 1998.
[12]  C. Schmitt, Il nomos della terra, cit., p. 65.
[13]  Ibidem.
[14]  Cfr. R. Girard, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, a cura di R. Damiani, Adelphi, Milano, 2001, pp. 113-114.
[15]  E. Jünger, Fuoco e movimento, in Foglie e Pietre, traduzione a cura di F. Cuminberto, Adelphi, Milano, 1997, p. 82.
[16]  E. Jünger, La mobilitazione totale, in Ivi, p. 113.
[17]  Ivi, p. 123.
[18]  Potremmo ricordare come presso i Romani la guerra non venne intesa alla stregua di mattatoio ma in quanto modalità di trascendere la realtà materiale, attraverso l'indirizzamento e la sublimazione del conato del furor. Cfr., ad esempio, G. Casalino, Il Nome segreto di Roma. Metafisica della Romanità, Il Basilisco, Genova, 1987; Aeternitas Romae. La via eroica al sacro dell'Occidente, Il Basilisco, Genova, 1982. Un tale utilizzo della guerra, intesa quale Via Eroica all'assoluto – equivalente a quella sacerdotale, in merito agli obiettivi da conseguire – fu propria a tutta una serie di civiltà, tra le quali quella giapponese. Cfr. Y. Mishima, Lezioni spirituali per giovani samurai e altri scritti, a cura di L. Origlia, Feltrinelli, Milano, 2006; La via del samurai, a cura di P. F. Paolini, Bompiani, Milano, 2000.
[19]  Cfr. J. Evola, Rivolta contro il Mondo Moderno, a cura di G. de Turris, con un saggio introduttivo di C. Risé, appendici di A. Grossato, R. Melchionda, G. Monastra, ed. Mediterranee, Roma, 2008, pp. 47-56.
[20]  Ivi, pp. 331-344. Cfr. anche R. Guénon, La Crisi del Mondo Moderno, a cura di J. Evola, Mediterranee, Roma, 2003.
[21]  Cfr. M. Weber, L'etica protestante e lo spirito del capitalismo, a cura di A. M. Marietti, Rizzoli, Milano, 1991.
[22]  Cfr. M. Nacci, L'antiamericanismo in Italia negli anni Trenta, Bollati-Boringhieri, Torino, 1989.
[23]  E. Jünger, L'Operaio. Dominio e Forma, a cura di Q. Principe, Guanda, Parma, 1999, p. 177.
[24]  C. Schmitt, Il nomos della terra, cit., p. 411.
[25]  Cfr. O. Spengler, Forme della Politica Mondiale, Edizioni di Ar, Padova, 1994.
[26]  C. Schmitt, Il nomos della terra, cit., p. 424.
[27]  Ivi, p. 426.
[28]  Ivi, p. 423.
[29]  Ivi, p. 429.
[30]  Ivi, p. 428.
[31]  Ivi, p. 427.
[32]  Ivi, p. 216.
[33]  Ivi, p. 215.
[34]  Cfr., in merito a questo snodo teoretico, S. Natoli, Télos, skòpos, eschaton. Tre figure della storicità, in Teatro filosofico. Gli scenari del sapere tra linguaggio e storia, Feltrinelli, Milano, 1991.
[35]  Nell'accezione jüngeriana, ovviamente. Cfr. La mobilitazione totale, cit.
[36]  D’altra parte, come è già stato accennato, l’intento di questo scritto non è la trasposizione esegetica del pensiero di un solo autore ma il tentativo di far luce sul destino della realtà in cui ci troviamo in-scritti; tutto questo solo a partire da un certo tipo di pensiero, nell'accezione genealogica e morfologica già accennata.
[37]  Non di certo casualmente, lo scrittore descrisse l'aviazione come prologo della figura dell'operaio, destinata ad impugnare gli strumenti della distruzione offerti dalla tecnica senza uscirne sconfitto. Cfr. E. Jünger, Boschetto 125, traduzione di A. Iadicicco, a cura di Q. Principe, Guanda, Parma, 1999. L'aviatore congiunge, nell'opera  jüngeriana, la figura del Krieger – formatosi alla scuola offerta dalle battaglie di materiali del primo conflitto mondiale – a quella dell'Arbeiter – i cui tratti metallici e chirurgici resistono all'irruzione dell'elemento all'interno delle industrie moderne.
[38]  P. Sloterdijk, Terrore nell'aria, traduzione di G. Bonaiuti, Meltemi, Roma, 2006.
[39]  E. Jünger, L'operaio, cit., p. 70.
[40]  Cfr. E. Jünger, Sulle scogliere di marmo, introduzione di Q. Principe, traduzione di A. Pellegrini, Guanda, Parma, 2007. Per una ottima interpretazione del volume in questione, cfr. Manuela Alessio, Tra guerra e pace. Ernst Jünger maestro del Novecento, Antonio Pellicani, Roma, 2001.
[41]  Cfr. anche W. G. Sebald, Storia naturale della distruzione, a cura di A. Vigliani, Adelphi, Milano, 2004; K. Vonnegut, Mattatoio n. 5 o La crociata dei bambini, a cura di L. Brioschi, Feltrinelli, Milano, 2006.
[42]  C. Schmitt, Il nomos della terra, cit., p. 430.
[43]  Cfr., in merito a questo transito, G. Accame, Ernst Jünger e la guerra dei materiali, in Diorama letterario, numero speciale dedicato ad Ernst Jünger, N. 46-47, Marzo-Aprile 1982.
[44]  E. Jünger, La mobilitazione totale, cit., p. 118.
[45]  Cfr. E. Jünger, L'operaio, cit., p. 102.
[46]  P. Sloterdijk, op. cit., p. 18.
[47]  E. Jünger, La mobilitazione totale, cit., p. 114.
[48]  C. Schmitt, Il nomos della terra, cit., p. 429.
[49]  E. Jünger, Eumeswil, a cura di A. Mandalari, Guanda, Parma, 2001, pp. 107-108. Orientamenti analoghi furono propri allo stesso Schmitt, il quale, nel suo scritto su La tirannia dei valori (a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano, 2006) mostrò come la posizione di un valore in quanto tale preclude la validità dei valori preesistenti. Di contro alla imposizione dei valori si staglia il non-valore, il quale deve essere aggredito e corretto con qualsiasi mezzo. La struttura teoretica che funge da supporto ad una discriminazione di questa profondità non si serve più di norme ma di valori assoluti. Identificandosi con il valore, lo Stato aggressore designa l'aggredito con l'epiteto del dis-valore, del non-valore, spalancando nuove e terribili violenze legalizzate.
[50]  C. Schmitt, Il nomos della terra, cit., p. 430.
[51]  Ibidem.
[52]  Ibidem.
[53]  Non ebbero, forse, i Greci a disposizione mezzi bellici che utilizzarono unicamente durante i conflitti nei quali si vedevano contrapposti ai barbari, ai non Greci, e che riposero contestualmente agli scontri tra le poleis, ossia intrastatali? Di casi del genere, d'altra parte, la storia offre un ampio assortimento, totalmente ignorato dal revisionismo degli stessi enti politici e sociali che promuovono le odierne guerre morali e umanitarie.
[54]  Per un efficace inquadramento di queste osservazioni, cfr. J. Evola, Cavalcare la tigre, a cura di G. de Turris, con un saggio introduttivo di S. Zecchi, Mediterranee, Roma, 2009, p. 118. Nonostante il giudizio di Evola differisca da quanto appena indicato, in merito al rapporto tra scienza ed applicazioni tecniche, riteniamo un certo orizzonte analitico possa dirsi comune a queste riflessioni e a quelle contenute nel detto studio.
[55]  Cfr. C. Schmitt, Teoria del partigiano. Integrazione al concetto del politico, a cura di A. de Martinis, Adelphi, Milano, 2005.
[56]  C. Schmitt, Il nomos della terra, cit., p. 431. Corsivo nostro.
[57]  G. Faye, Il Sistema per Uccidere i Popoli, traduzione di A. Zuliani con la collaborazione di B. Buonviso, Società Editrice Barbarossa, Milano, 1997, pp. 32-33.
[58]  J. Hervier, Conversazioni con Ernst Jünger, traduzione di A. Marchi, Guanda, Parma, 1987, p. 111. Cfr. anche E. Jünger, Lo Stato Mondiale, Organismo e Organizzazione, traduzione di A. Iadicco, prefazione di Q. Principe, Guanda, Parma, 1998, pp. 77-78: “L'ordine planetario è già compiuto, tanto nel modello quanto nella realizzazione. Manca solo il suo riconoscimento, la sua dichiarazione. Si potrebbe immaginare che abbia luogo come un atto spontaneo, di cui non mancano esempi nella storia, oppure vi si può pervenire spinti dalla forza di una serie di eventi. Prima però vengono sempre la poesia e i poeti. L'ulteriore estensione dei grandi spazi nell'ordine globale, l'estendersi delle potenze mondiali in direzione dello Stato mondiale, o meglio, dell'impero mondiale, si connette al timore che la perfezione conquisti una forma definitiva al prezzo della libertà del volere. É soprattutto per questo che non mancano i sostenitori di un mondo tripartito o pluripartito. Ma non ci sono segni che lo annuncino. É invece evidente che la figura del Lavoratore [che anima tuttora la nostra Weltzivilisation] è più forte della più antica opposizione, che è anche l'ultima: quella tra Oriente e Occidente. Con il raggiungimento della sua grandezza finale, lo Stato non conquista soltanto la sua massima estensione spaziale, ma anche una nuova qualità. Lo Stato in senso storico cessa di esistere. Esso si avvicina perciò alle utopie anarchiche o, almeno, la loro possibilità non contraddice più la logica dei fatti. Le questioni di potere sono risolte”.
[59]  C. Schmitt, Il nomos della terra, cit., p. 254.
[60]  E. Jünger, Lo Stato Mondiale, cit., p. 31.
[61]  J. Evola, Rivolta contro il mondo moderno, cit., p. 385. Cfr. anche M. Nacci, L'antiamericanismo in Italia, cit.
[62]  R. Guénon, La crisi del mondo moderno, cit., pp. 90-91, 96.
[63]  Cfr. O. Spengler, Il Tramonto dell'Occidente. Lineamenti di una Morfologia di una Storia Mondiale, traduzione di J. Evola, introduzione di S. Zecchi, nuova edizione a cura di Calabresi, Conte, Cottone, Jesi, Guanda, Parma, 1995, pp. 1108-1109.
[64]  Cfr. J. Evola, Gli uomini e le rovine, a cura di G. de Turris, con un saggio introduttivo di A. de Benoist, Mediterranee, Roma, 2001; R. Guénon, Il regno della quantità, cit., pp. 205-210.
[65]  Siffatto corto circuito è ottimamente sottolineato da Filippo Burzio nel suo Il demiurgo e la crisi dell'occidente, Bompiani, Milano, 1943.
[66]  Cfr. M. Foucault, Bisogna difendere la società, a cura di M. Bertani e A Fontana, Fetrinelli, Milano, 1998 e Sicurezza, territorio, popolazione, traduzione di P. Napoli, sotto la direzione di F. Ewald, A. Fontana e M. Senellart, Feltrinelli, Milano, 2005; S. Vaj, Biopolitica, Società Editrice Barbarossa, Milano, 2000; E. Unger, Politica e metafisica, Cronopio, Napoli, 2009.
[67]  L’atteggiamento apparentemente neutrale, almeno, al principio del secolo scorso di alcuni stati, gli S. U. A. ad esempio, cela un’aggressione ancora più massiccia e totale. Leggiamo ne Il nomos della terra, che l’intento degli Stati Uniti consta di “un metodo indiretto di influenza politica” basato sull’assumere “il libero commercio (…) e il libero mercato come standard costituzionali del diritto internazionale, in modo da scavalcare (…) i confini politici territoriali”. P. 329.

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