sabato 22 ottobre 2011

Oswald Spengler: L' Uomo e la Tecnica.

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Titolo: L' uomo e la tecnica. Ascesa e declino della civiltà delle macchine
Autore: Oswald Spengler
Editore: Piano B - Edizioni della Meridiana
Collana: La mala parte
Traduttore: A. Treves
Prezzo: € 11,00
Dati: pag. 112, brossura

Che la riflessione circa la tecnica e i suoi rapporti con forme politiche, sociali e storico-filosofiche rappresenti un topic particolarmente di moda del nostro tempo, è cosa nota. Tuttavia, l'analisi raramente raggiunge la profondità che l'ambito richiede, risolvendosi spesso nella mera ripetizione o riformulazione delle tesi di quegli autori che batterono per primi questi sentieri. Proprio nell'Evo del compimento del tecnocratismo planetario, possono autori quali Heidegger, Junger, Spengler (per citare solo alcuni di quelli che potremmo definire dei “classici” di questo ordine di riflessioni), indicarci una via per comprendere il luogo in cui ci troviamo, per decriptare il moto uniformemente accelerato che caratterizza i nostri tempi, al fine di decifrarne i geroglifici? Riteniamo che la riedizione di Der Mensch und die Technik. Beitrag zu einer Philosophie des Lebens di Oswald Spengler possa mostrare come il profetismo dell'autore in questione non abbia ancora cessato di concernerci. Trattasi di una delle opere meno considerate dell'autore, la cui recezione italiana, che ha il suo incipit nel 1931, è legata al nome di Angelo Treves (viene proposta, in questa nuova edizione, proprio la sua traduzione), ex massone, ex militante di sinistra, vicino alla figura di Filippo Turati, nonché traduttore del Mein Kampf, su commissione diretta di Mussolini il quale, parimenti, favorì la diffusione de L'uomo e la Tecnica, nonché di Anni Decisivi, dello stesso Autore. Una personalità singolarmente eclettica: crediamo sia l'unico traduttore ebreo di Adolf Hitler. L'opera, un classico del pensiero sulla tecnica, intesa quale chiave di volta della comprensione del percorso spirituale della Modernità, viene pubblicata ora come L' Uomo e la Tecnica. Ascesa e Declino della Civiltà delle Macchine da Piano B, casa editrice di Prato, con una prefazione di Emmanuel Mattiato, il quale ci propone, tra l'altro, un proficuo confronto tra l'Autore e Ernst Junger, circa la dimensione immanente e peculiarmente umana della guerra, della lotta. Der Kampf als inneres Erlebnis, celebre formulazione jungeriana, pone guerra e vita nella medesima costellazione, esattamente come il Nostro stabilisce una netta correlazione costitutiva tra aggressione predatrice, tecnica e umanità. La conflittualità manifestata, esteriore, trova le sue radici nell'essere dell'uomo; essa altro non è che proseguo diretto di quello scontro perenne che tuona nelle profondità del Wachsein, dello spengleriano essere-desto. Come sostenne Hoffman, Alle Existenz ist Kampf. Un pensiero che non ha mai abbandonato l'Occidente, da Omero a De Maistre, e che rende questi Autori un luogo privilegiato, tappa obbligata, nell'indagine di ciò che siamo. Veniamo ora, propriamente, alla via intrapresa nel testo che esaminiamo. Scopo del cammino è l'indicare il nesso strettissimo tra umanità e tecnica, legame che si palesa nello stesso sorgere dell'uomo in quanto tale, nonchè trait d'union direttamente costitutivo di quest'ultimo. Binomio archetipico, la cui ultima propaggine è riscontrabile nella sinergia che coinvolge le polarità faustiane di Weltzivilisation e tecnica moderna. Si indaga, soprattutto, la continuità tra questi momenti della storia dell'uomo, in un organicista “procedere a ritroso”, o “retrocedere avanzando”, attraverso i momenti salienti della vita della Kultur euro-occidentale, presentata in quanto totalità vivente e non come semplice frammentazione. In senso stretto, dunque, la dicotomia rilevante-saliente\irrilevante-secondario è insensata, in quanto in ogni parte traspare quella luce che avvolge la totalità. Ciò, propriamente,tramite una lettura di tipo morfologico- genealogico del divenire storico, in vista di tutta una serie di previsioni, che costituiscono l'ultima sezione dell'indagine. Ed è proprio la declinazione del metodo storico-morfologico elaborato ne Il Tramonto dell'Occidente e nella tale opera applicato allo studio del “gruppo delle civiltà superiori”1 ciò che muove la ricerca spengleriana rivolta, ora, all'origine dell'uomo e del suo essere al mondo, nonché, della tecnica, in quanto propria modalità costitutiva. E' bene, prima di continuare, spendere qualche parola a proposito di questa metodologia. Rinunciando a costruire una storia di tipo progressivo e lineare, costruita a posteriori ed interessantesi di meri eventi passati, di forme morte, sprovviste della propria aura, come direbbe Benjamin, Spengler sottolinea in vece l'incomunicabilità irriducibile delle differenti civiltà, delle diverse Kulturen, in quanto provviste di una serie di strutture fondamentali che non possono esser nemmeno comprese a posteriori, una volta estratte, astratte, dalla concretezza del loro in-essere. “Non esiste la civiltà ma le civiltà”, è bene ricordare questa massima del Nostro2. Le Kulturen figurano come organismi, ognuno provvisto di una nascita, di una vita e di un tramonto, come monadi chiuse in sé e non di certo accomunabili in un ordine mondiale di tipo storiografico. Dove la storiografia crea comunanze, riducendo i tempi e annullando distanze, al fine di costruire un divenire unico del tempo del cosmo, Spengler insiste sull'irriducibilità delle Civiltà ad un unico sistema, insistendo sull'analogia simbolica tra di esse, in vece che sul loro concatenarsi causale. Dove l'occhio dello specialista cerca somiglianze, superfici comuni da sottoporre al vaglio della comparazione scientista e obiettiva, volta a costruire un cosmo attorno all'uomo moderno tramite la sistematizzazione del suo passato, l'occhio morfologico rinuncia a tale creazione per indagare analogie strutturali, la presenza del medesimo atto poietico in organismi differenti e ben lungi, quand'anche prossimi. Il positivismo livellante non fa che trapiantare all'interno di organismi- civiltà ben lungi, fondamenti propri a sé medesimo, inventando un passato costruito ad hoc e proiettando questo passare nel futuro, al fine di renderlo abitabile. In poche parole: i metodi diagnosticati come mistificanti dal Nostro trovano il loro fulcro nell'ideologia progressista. Se l'Occidente ordina destini diversi in una lunga catena omogeneizzante, lo fa per porre sé stesso come ultimo anello. Ogni teleologia agisce sugli scarti qualitativi ridotte a informe quantità. La morfologia si muove in direzione contraria. Proprio l'ideologia del Progresso, fucina livellante e riducente, deve essere, di conseguenza, abbandonata. La storia non è un continuum qualitativamente omogeneo ma discontinuità, scarto, differenza, in una parola: organicità. Al collezionismo enciclopedico, già denunciato da Nietzsche, risulta preclusa ogni comprensione del divenire formale. Lo ribadiamo: l'analogia è da rimarcarsi dove insiste l'incomunicabilità, la differenza qualitativa tra forme. La mera somiglianza, in vece, non investe oggetti d'esperienza ma forme morte, enti mobilitati dalla mano violentatrice dei laboratori e dei musei, la quale ordina e colleziona la realtà in vista di quel mero enciclopedismo caratterizzante la specializzazione delle scienze europee, per dirla con Husserl. Se la somiglianza investe mere quantità, l'analogia è qualitativa, organica, totale3. Diventa necessario uscire dai musei, templi di forme morte, luoghi di culto dello storiografismo imperante, per acquisire quel “tatto fisiognomico”, quello “sguardo di Goethe” che, “sorvolando i tempi, scopre il significato profondo di ciascun fatto particolare”4. Trattasi di una storia che abbraccia tutti i domini dell'esistenza, non solo quelli accumulabili e ordinabili dai posteri. Trattasi delle esistenze, singole e ieratiche, delle Kulturen. A partire da queste considerazioni è possibile pensare le insufficienze, denunciate da Spengler, di quegli approcci idealistici, volti a privilegiare, nelle ricostruzioni, “singoli fatti abbelliti” lasciando all'oblio intere porzioni di passato che “scorrono via in un grigio e ininterrotto flusso”5, nonché delle diagnosi materialistiche, che trasformano distanze e interi processi, accomunati, ridotti e livellati sotto l'obelisco del pragmatismo, l'ultima religiosità occidentale possibile, che estende totalitariamente i suoi domini al passato. Nella prospettiva di tipo “vitalistico” spengleriana, la questione della tecnica entra in una costellazione in cui diviene co-legata direttamente alle aurore, ai meriggi e ai tramonti delle Civiltà, non occupando un ruolo marginale, parziale, come negli ideologismi appena citati. In un quadro concettuale di questo tipo, sono due gli errori da evitare, fraintendimenti derivanti entrambi dalla considerazione della tecnica come mero orpello umano, di cui ci si può facilmente e spensieratamente sbarazzare. Dove l'uomo viene considerato in quanto somma di parti “anatomicamente” indipendenti tra loro, la tecnica può apparire come un semplice mezzo, come medium: tale è la rappresentazione analitica dell'uomo, propria dei positivismi di ieri e oggi, che la morfologia intende scalzare, passando a considerarlo in modo olistico, come forma viva in vece che somma di parti inorganiche. Non dobbiamo, anzi tutto, considerare le macchine, i dispositivi tecnici che ci si presentano quotidianamente innanzi allo sguardo, come gli scopi della tecnica in quanto essa risulta essere molto più antica. Potremmo dire, piuttosto, che i macchinari che costellano la nostra puntiforme esistenza sono solo modi della tecnica, suoi gradi di oggettivazione, né i primi né gli ultimi apparsi su “questo nostro piccolo pianeta che in un tratto dello spazio infinito traccia per breve tempo la sua traiettoria”6. In secondo luogo, la tecnica non va pensata a partire dalla produzione di strumenti, in quanto semplice mezzo volto alla realizzazione di un fine estrinseco ad essa, essendo essa congenita all'esserci dell'uomo (trattasi della “posizione strumentale-antropologica” criticata da Heidegger in Die Frage nach der Technik). Possiamo anzi affermare, con Spengler, che è proprio la tecnica a creare quelle lacune che intende colmare, quelle finalità verso le quali, sincronicamente, tenderebbe. Non si danno finalità “esterne”.
La posizione di limiti in vista del loro superamento, ad infinitum, è il proprio caratterizzante l'animo di quella civiltà che ha fatto della tecnica la sua chiave di volta. Trattasi di quell'uomo “faustiano”, figura magistralmente tratteggiata nell'opera principale di Spengler, la cui tensione asintotica verso l'infinitamente grande e l'infinitamente piccolo eclissa colonne d'Ercole, hybris e nemesis, elementi propri del tipo di umanità “apollinea”, caratterizzante le Kulturen nel loro nascere. Solamente uno sguardo morfologico permette di sorpassare il limite imposto da tali fallacie. Proprio dall'animo umano è necessario, secondo il Nostro, muovere per orientarsi in nebulose di tal guisa, non di certo da concezioni finalistiche o meramente strumentali. Come sostiene Mattiato, nell'Introduzione, “il rischio, nell'età moderna, consiste dunque nello scindere tradizione e tecnica, cioè nel trasporre la nozione metafisica di assoluto nella tecnica, cioè in uno strumento. Si giunge allora alla creazione di nuovi miti, tra cui quello della religione della tecnica”7. Solo lo sguardo morfologico, in poche parole, che detronizza l'uomo dal ruolo di possessore dello tecnica, liquidandone la centralità planetaria, permette di indagare la reciproche contaminazioni tra mano, strumento e pensiero; in somma, il loro sinergico co-istituirsi. L'applicazione del procedere morfologico alla storia degli albori dell'umanità rivela un nuovo volto degli eventi. Se metodi quali anatomia e biologia indagano scale gerarchiche interne alle singole forme di vita, scomposte e ricomposte nei laboratori8, un approccio di tipo morfologico rivela una gerarchia macrocosmica, che vede, in ordine ascendente, minerali, vegetali, erbivori e predatori. L'uomo è situato al vertice, in quanto già predatore ma soprattutto essendo “libero dalla coercizione della specie”9, dalla cieca necessità della natura. Il prometeico sorgere dell'uomo, individuato a partire dalla sinergia tra l'occhio che scruta, la mano che agisce e l'arma fabbricata per l'attacco, lo pone inevitabilmente contro la natura, il cui ordine viene sorpassato, in vista della costituzione di una selezione propriamente “umana”, ossia, anti-naturale. L'uomo, sorgendo, si figura costitutivamente come un ribelle (l'espressione è di Spengler), che combatte incessantemente contro il suo Umwelt. Destinato a soccombere, procede in ogni caso sino alla fine. Il carattere tracotante dell'uomo e della tecnica, in fondo due modi di dire il medesimo nucleo pulsante, caratterizzano così quella contrapposizione congenita tra uomo e natura, che sfocia in un titanismo il cui esito apocalittico, come vedremo,è incarnato al meglio dal mantenimento delle posizioni ormai perdute del soldato di Pompei, ultimo paradigma eroico del Moderno. Di fatto, l'operare spengleriano non si riduce ad una semplice “rilettura” del passato, del non-più, ma trascina con sé la possibilità dell'augure di decifrare i caratteri del presentificare in vista di una previsione dell'avvenire. Solo un'adeguata lettura del proprio tempo permette quell'anticipazione, marca fondamentale, a detta del Nostro, di ogni pensiero di rango superiore. Giungiamo di necessità al lato prognostico dell'opera spengleriana: la decadenza della tecnocrazia occidentale ha le sue premesse nel suo stesso divenire: la stanchezza causata dalla tecnica, il ritorno a forme di vita più semplici come fuga innanzi all'onnipotenza del meccanismo, le “seconde religiosità”, le rivisitazioni, la dispersione delle tecniche di produzione e la rivalsa dei “popoli di colore” nei confronti della Weltzivilisation faustiana, che ora non ha più il monopolio delle tecniche. Tali sono gli esiti di quel cammino che investe il nostro esser qui e ora, il quale, se adeguatamente interrogato, rivela l'apocalisse congenita all'apparire del tipo faustiano, dispiegamento ultimo dell'originaria frattura prometeica, della lacerazione emancipatrice che relega l'uomo ad essere “misura di tutte le cose”. Le quali cose non son altro dall'uomo bensì enti disposti dall'intelletto calcolante, innanzi al divenire materiale, considerato come mero Bestand, come “fondo da magazzino”, secondo la celebre formula heideggeriana. Sottomessa, la natura si vendica nei confronti del suo figliol prodigo: le delimitazioni, semiosi originarie, volte alla soppressione del fondo predatore umano, non fanno che risvegliare ciò che intendono occultare: la volontà di potenza dell'uomo tende a dissolvere il limite in quanto tale; all'interno delle singole organizzazioni, la delimitazione dei dirigenti innanzi agli esecutori trasforma l'odio predatore, che presuppone comunque il rispetto dell'avversario, in disprezzo e invidia, impulsi rivelanti la ineguaglianza costitutiva delle due classi. A livello macroscopico, nella civilizzazione faustiana ora divenuta globale, si verifica il medesimo procedere: il rispetto dell'avversario, ancora presente a livello giuridico nel 1800, viene meno e le azioni belliche si trasformano in missioni di polizia. Non si dà più differenza tra il criminale, il brigante e l'avversario. La criminalizzazione è diretta conseguenza del disporsi planetario della tecnica, di cui i frutti sono eventi talmente catastrofici da risultare concepibili solo tramite paragoni con elementi naturali, come ci ricorda Junger in Foglie e Pietre. Invero, tale criminalizzazione è richiesta dalla tecnica in vista del suo dispiegarsi totalizzante. Come sosteneva Carl Schmitt, “il potenziamento dei mezzi tecnici di annientamento spalanca l'abisso di una discriminazione giuridica e morale altrettanto distruttiva”10: ossia, “questi mezzi distruttivi assoluti richiedono un nemico assoluto se non vogliono apparire disumani”11; è la tecnica, nel suo compiersi, che abbisogna di un nemico assoluto da attaccare con qualsiasi mezzo, senza esclusione di colpi. La catastrofe è già presente nella filigrana di tali eventi. A tale proposito, riportiamo gli ultimi passaggi dell'opera, in quanto decisamente incisivi: “Di fronte a questo destino (…), meglio una vita breve ma densa di fatti e di gloria che una vita lunga e vuota (…); il tempo non si può fermare: non vi sono saggi ritorni né prudenti rinunce. Soltanto i sognatori sperano nelle vie di salvezza. L'ottimismo è viltà. (…) Non abbiamo alternative. Il nostro dovere è di tener fermo sulle posizioni perdute, anche se non c'è più speranza né salvezza. Tener fermo, come quel soldato romano le cui ossa furono trovate a Pompei davanti a una porta: egli morì perché al momento dell'eruzione del Vesuvio si dimenticarono di scioglierlo dalla consegna. Questa è grandezza, questo significa aver razza. Una fine onorevole è l'unica cosa che non si può togliere all'uomo”12 (12). Se Spengler viene riconosciuto come uno degli esponenti del cosiddetto Kulturpessimismus, è anche da notarsi come tale atteggiamento scaturisca da una profonda presa di coscienza circa la realtà circostante. Il pessimismo spengleriano indaga, senza alcuna demonizzazione, ciò che intende prognosticare, a differenza di altri che poco conoscono di ciò che conducono al patibolo. E' da una profonda adesione a quel meccanismo parricida che coniuga lavoro, tecnica, massificazione ed economia (da notarsi: tutte grandezze inorganiche) che può scaturire qualsivoglia analisi e profezia, non certamente da fughe ultraterrene. L'atteggiamento del singolo rispetto alla fase discendente del ciclo euro-occidentale non può assolutamente prescindere da tali considerazioni. Non si tratta, qui, di riconoscere o meno un crepuscolarismo che non ha di certo una connotazione negativa, essendo un momento tanto necessario quanto quello dell'aurora delle civiltà, come ben riconobbe Julius Evola nei suoi scritti dedicati a Spengler13. L'atteggiamento non oscilla più tra essere e dover-essere, bensì tra dover-essere oppure non essere affatto. Se il destino della nostra Zivilisation è già stato scritto, il rifiuto di questa destinalità altro non è che una palese ammissione di impotenza rispetto al corso degli eventi. Il paradosso che denuncia il Nostro è quello, mutuato dal filosofo di Basilea, secondo il quale è realmente pessimista e nichilista un pensiero che rifugge il divenire per orientarsi verso paradisi perduti. Tale disposizione altro non fa che rivelare l'ultrapotenza di una realtà che non si riesce a comprendere , concettualizzare. Idealismi e materialismi sono ammissioni di questo tipo. Risulta necessario riconoscere tale realtà e contribuire al suo compimento, come attestano le pagine de “Il Tramonto dell'Occidente” nelle quali si invitano filosofi e metafisici a intraprendere vie quali l'ingegneria. Una terza opzione è esclusa. In un'ottica organicista, nessuna parte può opporsi al suo essere. Essere totalmente e morfologicamente oppure non essere affatto. Il resto è inattualità.


1. O. Spengler, L'Uomo e la Tecnica. Ascesa e Declino della Civiltà delle Macchine, Piano B, 29.
2. Si veda a tal proposito, O. Spengler, Il Tramonto dell' Occidente, Guanda, specialmente la sezione prima, Forme e Realtà.
3. Su analogia e somiglianza come approcci antitetici allo studio delle forme della realtà, si veda anche: René Guènon, Simboli dell'Analogia, in Simboli della Scienza Sacra, Adelphi, 275-8.
4. O. Spengler, L'Uomo e la Tecnica. Ascesa e Declino della Civiltà delle Macchine, Piano B, 36.
5. F. Nietzsche, Sull'Utilità e il Danno della Storia per la Vita, Adelphi, 21.
6. O. Spengler, L'Uomo e la Tecnica. Ascesa e Declino della Civiltà delle Macchine, Piano B, 41. Si noti come queste parole siano accostabili alla favola cosmologica elaborata da Nietzsche in Su Verità e Menzogna in Senso Extra Morale, ora in: F. Nietzsche, La Filosofia nell'Epoca Tragica dei Greci, Adelphi. La ridicolizzazione dell'antropocentrismo operata da entrambi gli Autori non potrebbe esser espressa in termini migliori.
7. Ivi, pag. 18
8. Una pungente satira di queste composizioni, scomposizioni e dissezioni è presentata da Renè Daumal in La Gran Bevuta, Adelphi
9. O. Spengler, L'Uomo e la Tecnica. Ascesa e Declino della Civiltà delle Macchine, Piano B, 57
10. C. Schmitt, Il Nomos della Terra, Adelphi, a cura di Franco Volpi, 430
11. C. Schmitt, Teoria del Partigiano. Integrazione al Concetto del Politico, 130
12. O. Spengler, L'Uomo e la Tecnica. Ascesa e Declino della Civiltà delle Macchine, Piano B, 108
13. Si veda, in particolare, J. Evola, Spengler e il Tramonto dell'Occidente, Fondazione Julius Evola

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